Concerto Living Colour 8 Agosto Roma, recensione

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L’estate è la stagione della musica dal vivo e a Roma da giugno a settembre il calendario è zeppo di eventi, quasi ogni sera c’è la possibilità di scegliere tra due o tre concerti. Praticamente quello che a Londra, Parigi e New York succede normalmente tutto l’anno. Ma da noi sembra che solo la calura estiva ci dia quella spinta necessaria per andare in massa ad ascoltare musica, forse perché ogni scusa è buona per uscire di casa, al contrario di quello che succede durante i “freddi” mesi invernali. Nemmeno vivessimo in Finlandia o nel Quebec. Ma va così, allora i solerti organizzatori di eventi (si chiamano così?) danno a tutti una chance di esibirsi dal vivo pur di riempire una serata. Tanto quello che conta è bersi una birra o uno spritz con un po’ di musica in sottofondo, magari chiacchierando e godersi il ponentino. Per fortuna tra improvvisati gruppi di suonatori di pseudo-tarante o redivivi “one-hit wonders” del becerume anni 80, la legge dei grandi numeri fa sì che ci siano anche dei live interessanti a cui assistere.
La manifestazione “Rock City”, ambientata nel tanto suggestivo quanto poco utilizzato Parco degli Acquedotti a Cinecittà ha avuto senza dubbio il merito di portare sul proprio palco molti interpreti della musica di qualità come i Napoli Centrale, i Mothers of Invention e Le Orme. L’apice della manifestazione però è stato probabilmente raggiunto l’8 agosto con il concerto dei Living Colour, gruppo che dalla fine degli anni 80 ad oggi è rimasto attivo passando anche per la parte alta delle classifiche con album come “Vivid”, “Time’s Up” e “Stain”. Guidati dall’ottimo e poliedrico chitarrista Vernon Reid, il quartetto si presenta in tour con il line-up ormai classico (il batterista Muzz Skillings ha lasciato il gruppo dopo il secondo album) formato da Will Calhoun alla batteria, Doug Wimbish al basso e Corey Glover alla voce. Da sempre rappresentanti del movimento rock afro-americano, il gruppo è stato fondamentale per dare il là a tanti altri artisti neri che hanno scelto il rock come mezzo d’espressione artistica e la Black Rock Coalition, organizzazione fondata proprio da Reid, conta ad oggi centinaia di gruppi.

Con un album uscito da meno di un anno (l’ottimo “The Chair in The Doorway”) ed una serie di progetti solisti in fucina, i Living Colour dal vivo potrebbero permettersi di spaziare senza problemi. Invece, come forse è anche giusto che sia, per questo concerto di due ore abbondanti, il gruppo newyorkese si affida maggiormente al loro repertorio classico, assicurandosi il seguito anche tra i fan meno aggiornati. Palco semplice senza troppi effetti speciali, essenziale anche l’abbigliamento di scena, se così si può definire: Corey Glover ha sfoggiato una semplice tuta con scarpe da ginnastica tanto che, complice il capello corto lontano dalle treccine colorate a cui ci aveva abituato, da qualcuno era stato persino scambiato per un tecnico! Ma non importa perché quello che veramente i Living Colour portano alla ribalta è il rock, duro e puro, senza fronzoli e senza troppe chiacchiere. Dopo qualche pezzo più recente per aprire la serata, il pubblico si infiamma con classici quali “Cult Of Personality” , “Glamour Boys”, “Leave It Alone” e “Type”. Ovviamente Vernon Reid sa che l’audience si aspetta i suoi assoli e praticamente ogni pezzo si conclude con uno suo show personale alla chitarra in cui la sua tecnica e la sua velocità “di mano” non vengono mai meno.

Pur senza lunghe jam strumentali, i Living Colour sanno anche stupire con la totale reintrepetazione di molti dei loro vecchi pezzi come “Funny Vibe” o “Bi”. L’influenza del funk si fa sentire in questi casi anche se si può quasi parlare di “funk-metal” dovuto non solo alla massiccia presenza della chitarra ma anche alla rumorosa batteria “picchiata” dall’eclettico Will Calhoun. A quest’ultimo è concesso anche un lungo spazio personale nel quale si scatena con un assolo di batteria che svaria di stile in stile passando persino per l’elettronica con l’ausilio di strumentazioni aggiuntive ed addirittura di bacchette luminose che brillano cme stelle sulla notte romana. E se Corey Glover ha ancora una grandissima voce la cui timbrica è inconfondibile e non perde un colpo dall’inizio alla fine, sarebbe ingiusto non citare il fondamentale lavoro al basso di Wimbish, intenso ed inesauribile stantuffo del ritmo.

Dopo l’immancabile bis (“Love Rears its Ugly Head”, altro classico) c’è la possibilità di avvicinare i musicisti pronti a farsi foto, firmare autografi e chiacchierare al banchetto del merchandising dove tra l’altro molti CD rari sono in vendita a prezzo vantaggioso.
Insomma, una serata di ottima musica dove molti fan presenti nel 1990 al TendaStrisce si sono ritrovati vent’anni dopo con lo stesso entusiasmo per assistere allo show di un gruppo in perfetta forma e che in quasi tre decenni di carriera non ha mai smesso di esprimersi con il loro linguaggio senza ammorbidirsi o sacrificare la qualità. Un’occasione da prendere al volo in un’estate di musica dal vivo dove si è avuta l’impressione che la quantità contasse più della qualità.