Storia del Jazz Capitolo 4 – John Coltrane

John Coltrane

Il giovane si avvicinò al microfono per fare il suo assolo. La voce del sax tenore era piena, rotonda, completa. Non era il lirismo sommesso, sobrio e senza troppe pretese del cool jazz, ma il riemergere dell’enfasi, dell’attacco potente del bebop.

Con queste poche suggestive righe inizia un racconto di Terkel su John Coltrane e con una serie di semplici, ma efficaci immagini egli riesce a suggerire almeno uno degli aspetti salienti dello stile di questo musicista così importante nella storia del jazz: la sua rottura con le tendenze “californiane” (volte ad uno swing più lieve, quasi lirico, ma spesso piatto e privo del vero nerbo nero), in favore del recupero del fraseggio precedente, il bebop, arricchito dal suo personale stile carico di pathos e fuoco. E’ ancora una volta l’Africa che riemerge dalle ceneri lasciate dai musicisti della fine degli anni ’40, per tornare stavolta stabilmente nelle composizioni e nel solismo di tanti nuovi artisti. Come sostiene giustamente Marcello Piras il periodo che va dal 1961 al ’64 è il momento migliore per Coltrane; basti pensare che in questi anni egli porta a compimento le sue ricerche stilistiche precedentemente iniziate (l’hardbop e le armonie ardite dei salti di terza maggiore, i suoi famosi “Giant steps”) e incide due album caposaldo del jazz successivo: Africa e A love supreme. Non dimentichiamo inoltre che è questa la particolare contingenza storica in cui le lotte per i diritti civili e i contrasti razziali in genere si acuiscono. I grandi leader storici, quali Malcolm X (di cui parleremo in seguito) e Martin Luther King, fanno la loro comparsa nella storia americana. Al loro fianco non dimentichiamo però l’opera e il pensiero di Marcus Garvey, che già anni ’20 profetizzava, attraverso un programma a dir poco rivoluzionario, il ritorno in Africa di tutti i neri d’America. Moltissimi credettero in lui e per questo venne da subito considerato una minaccia per il governo: si rischiava di perdere la forza-lavoro degli Stati Uniti! Morirà esule in Inghilterra. Max Roach, nella sua dirompente We insist! Freedom now suite, evoca questo personaggio così significativo con un pezzo dal titolo Garvey’s Ghost. E’ dunque la fine di un’epoca, fatta di stereotipi culturali e razziali. La svolta dei primi anni Sessanta porta i musicisti a urlarlo in modo più esplicito:
“E’ finita per i figli dei bianchi, non balleranno più con la musica del pagliaccio nero!”
dice Archie Sheep [sassofonista di grande importanza nei movimenti d’avanguadria musicale, n.d.r.]. Il rifiuto dell’intrattenimento, l’abiura degli atteggiamenti alla Zio Tom (il bersaglio era Armstrong, ovviamente) che era stato uno dei cavalli di battaglia del bebop, ormai è carico di contenuti politici concreti.
Tornando a Coltrane e al suo periodo, sappiamo che
chi poneva Coltrane tra i portabandiera della rivolta nera, pur facendolo senza il permesso dell’interessato, non aveva tutti i torti. Quando si lanciava nelle sue ubriacanti improvvisazioni, Trane diventava un altro. Conosceva una sorta di “trance”, in cui affioravano livelli psichici profondi: là erano sepolte le antiche cicatrici lasciate dall’odio razziale, là era il dolore. Di lì dunque venivano l’urgenza di gridare, di esprimere la propria sofferenza, di colpire e ferire l’orecchio altrui.

Sarà indimenticabile perciò la sua incisione di Africa/Brass del 1961, primo suo disco registrato per l’etichetta Impulse!. A livello prettamente musicale è stato detto che la collaborazione del polistrumentista Eric Dolphy fu fondamentale per la riuscita del disco, anche perché fu Dolphy a preparare la maggior parte degli arrangiamenti. I due erano fatti della stessa pasta e ciascuno trovò nell’altro i propri ideali. Entrambi studiavano con determinazione la melodia, l’armonia e l’espressività, perché entrambi confidavano, in grande misura, sull’effetto delle emozioni.
Non dimentichiamo infatti che Africa prevede un organico composto, oltre che dal quartetto jazz classico con Coltrane ai sax, Mc Coy Tyner al piano, Elvin Jones alla batteria e Reggie Workman al contrabbasso, da una vera big band di ottoni (di qui il titolo “brass”).

Quali sono gli elementi più vicini all’Africa, dunque? Intanto, la scelta di usare due contrabbassi: <> riporta il giornalista Ashley Kahn. Del resto, i contrabbassi suonati da Workman e Davis sono l’asse portante che lega da un capo all’altro il brano; “noi usiamo due contrabbassi. La linea principale attraversa tutto il brano; l’altra ha delle libertà ritmiche attorno ad essa”, libertà come quella di usare l’archetto e di contrapporlo al pizzicato. Ma ancora Coltrane ci dice che c’era un disco di musica africana che lui ascoltava spesso e aveva una linea di basso simile a una salmodia e il gruppo l’ha rielaborata, usandola in diversi brani. A Los Angeles Coltrane ha puntato su ritmi africani piuttosto che in 4/4 stile swing e tutto ha cominciato a prendere forma.
Ma non è tutto; anche la stessa scelta dei colori orchestrali tradisce un sound “corposo” ed “etnico”.

Infine, come elemento forse più caratterizzante, la percussione di Elvin Jones, dalla cui cellula ritmica di base egli crea tutta la sequenza dell’intero brano che dà titolo al disco. <>, sottolinea il critico Luigi Onori. Sul senso del ritmo che caratterizza i dischi di Coltrane di questo periodo si è detto molto ed è bene ribadire il concetto che il sassofonista cercava anche in questo ambito sonoro nuove soluzioni:

Quello che mi piace sentire in una sezione ritmica è il senso di propulsione e spinta, che avvolga bene il sax e lo sostenga e che abbia carica. Più che il beat, è il senso di pulsazione a tenerti alla larga da un approccio noioso. […]E’ necessario avere un beat costante, ma non è necessario che suonino tutti in 4/4, cioè rigidamente.

Coltrane materializza letteralmente, con questo capolavoro discografico, una sua grande aspirazione: porre dinnanzi agli di tutti il suo messaggio sociale e musicale, rendere definitivamente manifesto il suo “love supreme” per la Grande Madre Africa.