In memoria di Mike Bloomfield

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Oggi è il 15 febbraio del 2006:
ho portato la chitarra,
conosco un paio di blues
e dello spazio profondo
potrei raccontarti
altre fughe
meravigliose e tremende.
Ma siamo in fila indiana
in questo altrove
che scruto
alle tue spalle.

25 anni fa, il 15 febbraio del 1981, moriva a San Francisco Mike Bloomfield.
Aveva 37 anni, soffriva da anni di artrite alle mani e di insonnia cronica ed era uno dei più grandi chitarristi bianchi di blues.
Certo, raccontare il blues (qui da intendersi come rock-blues elettrificato che edifica le proprie fortune, nei primi anni ’60, negli Usa con Paul Butterfield e, appunto, Mike Bloomfield e in Gran Bretagna con Alexis Korner e John Mayall) per iscritto conta poco rispetto all’ascolto.
Pertanto queste parole sono da intendersi solo come un riverente ricordo nei confronti di un artista che ha lasciato un segno (nel mio e in tanti altri cuori) e come un ‘vademecum’ delle sue produzioni più meritorie.
Il blues è un viaggio nei meandri più misteriosi e terrificanti dell’animo, è un’ossessiva penetrazione nel granito che permea i nostri abissi, è una fuga meravigliosa e tremenda in un mondo che è ‘altrove’.
E Mike Bloomfield, in questo altrove, c’è stato migliaia di volte prima di morire, lo ha scoperto, messo alla prova e, infine, esorcizzato.
Tecnicamente e discograficamente la sua carriera spazia dagli esordi con la Paul Butterfield Blues Band (il disco omonimo del ’65 – intriso di blues canonici suonati con perizia e impeto – e “East-West” del ’66 – dove il suono ‘nero’ è stravolto da lucide incursioni nel jazz e nella psichedelia), all’incontro che segna una vita con Al Kooper (prima come session-men in “Highway 61 Revisited” – capolavoro rock-blues del Dylan più magistrale – e poi, a loro nome (e con il contributo di Stephen Stills), in “Super Session” del ’68 – primo album che eleva a rango di arte ispiratissime jam-sessions di blues psichedelico).
La comunione di intenti con Kooper produrrà due ulteriori album: il doppio “The Live Adventures Of Mike Bloomfield And Al Kooper” del ’69 e “Fillmore East: The Lost Concert Tapes 12/13/68”, album pubblicato soltanto nel 2003 (entrambi rielaborazioni dal vivo del suono e degli intenti di “Super Session” in una sorta di apologia del matrimonio tra blues e psichedelia, già celebrato fastosamente nel ’67 da “Are You Experienced?” di hendrixiana memoria).
Curiosissimo, contemporaneamente, di tutte le più influenti diramazioni del suono ‘nero’, fonda – con il cantante Nick Gravenites – il gruppo Electric Flag che dà alle stampe, nel ’68, “A Long Time Comin’”, accattivante scorribanda – anche se un po’ troppo pop in certi momenti – tra blues, soul e rhythm’n’blues.
L’anno dopo escono altri due dischi live fondamentali, sempre a cavallo tra blues e rhythm’n’blues e sempre in collaborazione con Gravenites: “Live At Bill Graham’s Fillmore West” e “My Labors” (il primo vede anche la partecipazione del sapiente bluesman Taj Mahal).
Nei primi anni ’70, già segnato dalle difficoltà di salute cui si è già accennato, si imbarca in prove discografiche confuse e contraddittorie, prima di ritornare al blues più puro e vero, in una magica alternanza di suoni acustici ed elettrici: “If You Love These Blues, Play’em As You Please” (76), “Analine” (77, delicatissimo e struggente) e “Michael Bloomfield” (78).
Da ricordare, infine, tra i molti dischi postumi, “Don’t Say That I Ain’t Your Man! Essential Blues 1964-1969” (‘summa’ – con alcuni interessanti inediti – del periodo più ispirato del nostro) e “Live At The Old Waldorf” (emozionante sintesi di alcuni concerti tenuti tra il ’76 e il ’77).
Il blues è solitudine e sofferenza, ma, forse, attraverso lui (come attraverso ogni vero viaggio attraverso gli inferi del nostro animo) ci si redime: mi piace pensarlo, “in questo altrove che scruto alle tue spalle”.