Ac/Dc – Back In Black (1980) recensione.

Sostengono alcuni, in modo un po’ provocatorio, che quando una band decide di cambiare il proprio cantante – o è costretta a farlo per qualche circostanza avversa – avrebbe quasi l’obbligo morale di dover contestualmente modificare il proprio nome. Anche se tale soluzione mi sembra un po’ drastica ed è impossibile generalizzare, c’è da dire che la voce resta sempre e comunque un vero e proprio marchio di fabbrica per qualsiasi gruppo, di conseguenza, sostituirla può rivelarsi un’operazione altamente a rischio, non di rado fatale. Da considerare, a dire il vero, che nella storia della musica, ci sono alcuni esempi in cui addirittura il pubblico ha preferito (almeno commercialmente parlando) la seconda fase artistica di tali band, rispetto a quella precedente, come nel caso degli Iron Maiden che proprio con l’arrivo di Bruce Dickinson (al posto di Paul Di’Anno) iniziarono – di fatto – la loro golden age.

Un caso altrettanto eclatante, al riguardo, resta quello degli Ac-Dc che, dopo la tragica morte di Bon Scott nel febbraio del 1980, si trovarono nella pessima situazione di doverlo rimpiazzare rapidamente con un degno successore. Gli australiani, capitanati dai due fratelli chitarristi Angus e Malcolm Young, puntarono sul semi sconosciuto Brian Johnson – scozzese, ma di origine italiane, da parte di madre – a discapito dell’allora più papabile Allan Fryer.

La scelta della sua voce, dall’incredibile estensione vocale e ruvida come la carta vetrata, si rivelò a dir poco fortunata.

Il materiale sul quale stavano lavorando in quel periodo era di ottima fattura, ma l’impresa di raggiungere vette ancora più alte del precedente album “Highway To Hell” e tentare di conquistare finalmente il mercato USA si prospettava come ardua: praticamente una montagna da scalare. E invece, i 5 ragazzacci (la sezione ritmica era formata da Cliff Williams al basso e Chris Rudd alla batteria) pubblicarono “Back In Black”, una vera e propria “bomba atomica” le cui “radiazioni” sono a tutt’oggi ancora sparse in giro per il mondo.
La copertina totalmente nera, oltre a richiamare il titolo dell’LP, rappresenta un chiaro accenno alla fase di lutto che stavano vivendo, ma i 10 pezzi che compongono la track list sono tutt’altro che un mortorio. Infatti, da una parte la musica hard rock che propone è talmente potente ed efficace da far risvegliare anche un cadavere, dall’altra i moltissimi riferimenti sessuali, sia nei titoli che nei testi, sono così espliciti da rasentare l’oscenità in più di un episodio (basti pensare a “Let Me Put The Love Into You” che, verso la fine dice, con una metafora tutt’altro che ambigua: “Fammi tagliare la tua torta con il mio coltello”).

Il livello qualitativo della track list, sotto la direzione del produttore Robert Lange, è semplicemente irripetibile: la campana minacciosa di “Hell Bells”, la carica di “Shoot To Thrill” e i riff taglienti di Young nella title track sono ormai pezzi di storia del rock. In particolare con “You Shook Me All Night Long” riuscirono perfino a trovare il brano dal piglio radiofonico che avrebbe spazzato via ogni remora nei loro confronti. In poche parole, non solo riuscirono a sbancare anche l’America, ma crearono una pietra miliare del loro genere che difficilmente sarà mai superata da nessun’altra band (quanto meno in termini di vendite). Al riguardo ricordo che diverse fonti autorevoli piazzano “Back In Black” al secondo posto fra gli album best seller di tutti i tempi, giusto a ridosso dell’inarrivabile “Thriller” di Michael Jackson.

Imperdibile.