Alfonso Moscato “Malacarne”, recensione

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Alfonso Moscato (ex voce delle Cordepazze) con questo raffinato debutto, si affaccia dal suo mondo solitario, raccontando piccoli angoli di realtà oscura e riflessiva. Inquieto e disagiato specchio dell’esistenza, posta sul baratro del nulla, ma ricca di sensazioni fuorvianti, vive nel loro esistere, attraverso un punto di osservazione confinato e ricamato attorno ad un cantautorato elegante ed espressivo.

Attraversando quell’arco immortalato nella cover art, stretto tra due rampanti leoni, si inizia a volteggiare nell’aria dei tardi anni ’60, in cui l’idioma della Trinacria sembra vivere mediante U Carzaratu”, narrato in un dialetto dolcemente sorretto da alte e docili note di un pianoforte, posto sulle calde sonorità del violoncello, mentre il leggero arpeggio sonoro accompagna la linea di cantato osservativa e legata, inevitabilmente, alla tradizione canora della Sicilia che racconta. L’intreccio terminale tra spoken word e melodia batte gli ultimi tremiti per inoltrarsi verso arie sudamericane; arie fondamentalmente melanconiche, introverse e metaforiche che si delineano attorno ad un timbro che ad un primo impatto può apparire costruito e decisivamente pensato nelle sue striature cromatiche. In realtà l’approccio del solitario cantautore sembra essere quello di costruire il proprio ego attorno ad una ragionata narratività, che trova il suo apice nella semplicità dell’incipit armonico raccontato in Giovannino senza paura, di certo tra le migliori tracce.
Il brano, ricco di sensazioni interposte tra ritmiche Bandabardò e compostezza estetica, viene poi decomposto da un’inattesa ironia fuori riga, espressa con I paesi svuotati, colma di sorrisi amari che entrano in testa al primo immediato ascolto, per lasciare posto alla narrazione chiusa e nera di Amore Criminale prima e Verrà l’Arcangelo Michele poi. Proprio quest’ultima traccia, tra zufoli e accordi aperti, si annoda al disagio di una violenza sorda, che non risparmia eccessi narrativi pronti a raccontare la forza distorta (e poco visiva) di celati eventi.

Se poi con Distruggimi ci si ritrova tra reminiscenze stilistiche vicine all’espressività di Ornella Vanoni, con Le pulle l’autore invita gli astanti a guardare con attenzione il mondo perduto di un futuro violato, un mondo desolante, vissuto nella metodica dell’arpeggio infinito, pronto ad ospitare al proprio fianco sensazioni disturbanti e claustrofobiche, poste ai confini di funzionali rumorismi, echi e riverberi ossessivi.

A chiudere i luoghi surreali fotografati da Alfonso Moscato sono infine il ritorno al vernacolo di Malaluna, ottima nella sua linea di basso e Etz Hazait straordinario atto di chiusura, da cui emerge un riuscito dialogo espressivo tra il battere e la timbrica poetica di un disco che sembra avere il pregio dell’immediatezza, ma che non sembra voler vivere di estemporaneità.