?Alos -Xabier Iriondo slip 7″, recensione

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In questi dodici anni da articolista raramente sono giunti in redazione cari vecchi vinili, l’esiguo numero potrebbe racchiudersi in poche decine di unità. I cosiddetti 7”, quelli che fino a 15 anni addietro tendevamo a chiamare 45 giri, oggi sono perlopiù oggetti di culto realizzati per il piacere di rimanere ancorati all’old style e soprattutto per coloro i quali amano ancora visceralmente il tocco genuino della puntina sul disco. I solchi neri sono “roba che ti fa sentire vecchio”, come dicono la maggior parte degli adolescenti di oggi, ignara di cosa sia davvero un disco, con il suo colore, il suo odore e i suoi particolari che, nell’era digitale, sembrano finire in un oblio imbarazzante ed al contempo triste. Per noi ragazzi degli anni ’70, con tatuato sulla pelle la chiave di violino, questo formato impolverato rimarrà per sempre il vero piacere acustico.

Oggi come allora, fortunatamente c’è chi sta riscoprendo questo supporto, sia grazie al sapore vintage-modaiolo, ma soprattutto grazie a coloro che credono ancora in questo mezzo comunicativo come Bar la muerte e la Tarzan Records, che offrono al proprio popolo di nicchia un prodotto raro nel mercato mainstream. Il sette pollici in questione rappresenta una suggestiva instant composing, libera da ogni dettaglio occlusivo, in cui la licenza compositiva racconta in tre tracce trasversali l’arrivo della tempesta sonora, parzialmente mitigata dalla frescura piovana e dall’accalcarsi di nuvole dipinte in partiture free. Un insieme di (non) note che forniscono nutrimento a coloro i quali riconoscono tra mille l’odore acre delle cicatrici della Signorina ?Alos e il giallo Metak di Xabier Iriondo. La strana coppia offre infatti un esortazione musicale alla libertà più assoluta, racchiusa in una cover art che di certo non lascia indifferenti. La work art, semplice cobranding targato Stefania Pedretti e Valentina Chiappini ricalca infatti da un lato l’inquietudine espositiva (ottimo parallelismo musicale) e dall’altro una proto infantilità grafico-pittorica, che ricorda le prime opere degli Ovo, nascondendo però una sensazione di caos controllato, semplice ed efficace effluvio grafico delirante.

Il turbinio di chine apre all’ipnotica e agitante The clouds, capace sin dalle prime note di rendere merito al proprio mondo cupo e orroristico, catapultando l’ascoltatore in un gioco nereggiante, fatto di rumorismo distorto come la realtà che vuole raccontare. Gli spasmi sonori disturbano come l’agitazione disorganica di un film nero. Manca la violenza esplicita, ma la paura di ciò che è in arrivo folgora senza mezzi termini. Le corde vocali vomitano l’impossibilità di equilibrio che si spezza solo nel cambio di lato. La poliedricità compositiva di Iriondo accoglie poi senza divergenze artistiche la religiosità deviante delle linee di canto che a tratti inseguono proprio quegli ardori orientaleggianti che finiscono per unire in un buon risultato sui generis due menti pensanti del nostro panorama noise.

Un disco che nella sua congenita brevità, sviluppa l’amore per una completezza free da cui partire per dar voce al nostro più profondo inconscio, in cui strumentazioni inusuali e scomode possono diventare valvola di sfogo o condanna del nostro Ego, in un finale improvviso ed aperto sull’ignoto.