Andrea Pagani – L’intervista – 2008

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Incontro Andrea Pagani dopo vicendevoli inseguimenti estivi, tant’è che riusciamo a trovarci a settembre. Roma sud è nel caos e al ritardo già così ottenuto si somma un problema del bistrot scelto per la chiacchierata. Rimediamo in un piccolo ristorante vicino: cous cous, tortino di carciofi e patate (lui, non sia mai che io mangi carciofi) e due bicchieri buoni.

L’atmosfera insomma c’è tutta.

Non virgoletterò frasi o risposte, o se lo farò siete invitati a considerare che non si tratterà necessariamente delle sue parole testuali; la serata è stato un parlare assieme, lontani dallo schema di un’intervista classica, e così vorrei riportarvela.

Mi presenta, rispettivamente tramite supporto fisico e a voce, due suoi lavori (voi lettori ne conoscete già un altro): il “vecchio” Le Storie d’Amore e, ancora non disponibile sul mercato, il nuovo lavoro dedicato a Puccini, che ad oggi ha titoli e tracklist provvisori.

Lo sento particolarmente contento di aver realizzato questo lavoro, nato come ulteriore definizione di un’idea iniziale di Makoto Kimata, il noto produttore giapponese che ha scelto Andrea come una sorta di rappresentante del pianismo jazz italiano in estremo oriente: si era pensato inizialmente ad una trasposizione in chiave jazz dell’opera lirica italiana -il che comporta tra l’altro che di materiale per qualche altro progetto ora ce n’è! chissà…- e poi ci si è concentrati su Puccini.

Questi progetti, si sa, sono di un pericoloso che levati, e allora ho chiesto “diplomaticamente” ad Andrea… cosa dovessi aspettarmi, ecco. La risposta è stata tranquillizzante. L’approccio è andato nella direzione di dare swing a temi di cui si è ritoccato poco o anche nulla in termini armonici e soprattutto melodici, volendo preservare la bellezza dell’originale e avendo comunque come obiettivo la semplicità, la possibilità reale di raggiungere anche “sentimentalmente” l’ascoltatore privando la nuova costruzione di quegli esercizi di stile della mente che fanno tanto intellettuale ma che davvero in un passato anche per nulla remoto ha prodotto mostri a forma di CD in quantità rilevanti. Il successivo ascolto di alcuni momenti di quello che sarà il prodotto finale mi ha confermato le parole e le intenzioni di Andrea: una musica rispettosa, che osa anche modernità (arrangiamenti virati funky o gospel, oltre ad un piacevolissimo jazz acustico “a la modern jazz quartet”) perché si fonda su una struttura che di Puccini ha mantenuto comunque gli aspetti importanti e caratterizzanti.

Una produzione così, fatta di commistioni, di Giappone, di idee buone da far crescere ci porta inevitabilmente anche a parlare di mercato. Stare “nel giro” richiede d’esser continuamente l’agente stampa di sé, forse più che in passato, e in Andrea si vede che l’anima da PR-a-tutti-i-costi riveste un ruolo perlomeno secondario rispetto a quella del musicista vero e proprio, appassionato del suonare. L’ho conosciuto nel 2007 entrando decisamente per caso in un piccolo locale che nemmeno sapevo facesse musica quella sera, e ho provato subito la sensazione di uno stile divertente, gioioso nel far musica, perfino in posti dove, gli dico con modalità solidali, magari ti stanno davanti sforchettando e applaudendoti alla fine esattamente come farebbero in presenza di una qualunque esibizione di pianobar semi-precotto. “Ma sei tu che devi farti ascoltare, che devi conquistarti il pubblico e la sua attenzione” mi risponde fermo e risoluto, sebbene poi ceda nel confessarmi qualche piccolo rodimento circa il suonare in giro per una Roma che, al di là degli spazi ufficiali del jazz, è fatta spesso anche di platee sane sane che “non ti si filano” pure se sei Herbie Hancock, ché tanto sono là per chiacchierare e mangiare col sottofondo.

Parliamo, così, di quanta differenza esista, e di quanto poi l’ascolto in special modo dal vivo la evidenzi, tra fare il mestierante del settore e suonare per la voglia di arrivare a chi ti ascolta. “La musica”, mi dice, “ha bisogno che a farla siano persone, persone che si trovano, si riconoscono una con l’altra, hanno modi di vedere e sentire anche diversi tra loro ma con la disponibilità a scambiare, a stimolarsi. Sì, ok, la tecnica serve, è banale dirlo, ma per suonare bene davvero con qualcuno c’è bisogno di sentirsi umanamente bene con le persone con cui suoni”. In studio gli album di Andrea sono stati tutti realizzati suonando dal vivo, senza sovraincisioni né “turni”; succede per molto jazz ma comunque non sempre, e in ogni caso lui ci tiene a sottolineare questo punto, sente che anche da questo dipende la qualità di quel che fa. Non voglio sfuggire alla tentazione della domanda classica sul tema e quindi gli chiedo con chi amerebbe costruire il suo gruppo (quartetto? quintetto? cosa?) ideale; per vostra fortuna lui mi prende meno sul serio di quanto la domanda avrebbe scioccamente preteso e sorridendo mi dice che potrebbe farmi diversi nomi da escludere categoricamente per la formazione dell’ensemble; dopo aver verificato che in merito non mi farà un nome che è uno manco se gli tolgo tre ottave di tasti dal piano torno ad orientare in positivo la situazione e gli chiedo con chi si trovi particolarmente bene, ma sento che me lo avrebbe comunque detto di lì a poco: “mi trovo benissimo con Massimo (Moriconi, bassista del cui impressionante curriculum, se non sapete nulla, potete tranquillamente stupirvi a puntate girando per il web, e che con tutta probabilità avete inconsapevolmente ascoltato decine di volte, ndr); è una persona eccezionale, sempre entusiasta, positivo, con cui suonare è splendido.”.

Che Andrea sia da anni il tastierista della band di Roberto Ciotti è argomento trattato di passaggio e trasversalmente lungo le parole, e che perciò vi riporto qui non perché ci siano state domande o risposte specifiche in merito, quanto piuttosto per delinearvi meglio il profilo di un musicista che suona piano e tastiere (“ma il piano, il piano…”), che arrangia senza stare per forza entro i confini e che pure non ha alcun interesse né particolari vocazioni a fare lo sperimentatore di professione, o quello che provocatoriamente scardina porte che si possono tranquillamente lasciare accostate.

Dopo un siparietto sulla scelta dei dolci col quale diventiamo il centro d’attenzione della piccola saletta mi concedo, stavolta ridendo, l’inevitabile “progetti per il futuro?” -tanto ho la sensazione che abbia comunque rilevato barlumi di intelligenza nel mio sense of humour e quindi decido che su queste basi non potranno cadergli le braccia per la domanda-. Nel futuro c’è tanta musica dal vivo, tanto suonare in giro per il gusto bello di farlo (c’è in cantiere anche qualcosa in Giappone, si vedrà), l’intento di prodursi da sé un lavoro in quintetto, un sano desiderio di proseguire a comporre tanto e dedicare agli standards uno spazio non eccessivo (o anche meno!). Ai miei occhi c’è un musicista “vero” e diretto, che ama suonare com’è. Per fortuna l’attualità della sua produzione rispecchia questo. Gli auguro di cuore di proseguire così, ché ci guadagnamo anche noi!