Antonio Firmani & the 4th rows “We say goodbye, we always stay”, recensione

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Se prima di ascoltare il disco aveste voglia e tempo di soffermarvi ad osservare l’artwork, probabilmente avreste l’impressione di sentirvi chiusi fuori da quella legnosa porta fotografata in copertina. Solo dopo l’ascolto di questo attrattivo platter vi rendereste conto, che dietro quell’entrata ci siete voi, proprio dentro al mondo di Antonio Firmani and the 4th rows. Quella porta, serrata con il lucchetto, non è un ostacolo alla realtà emozionale raccontata da questo sorprendente debutto, quanto piuttosto una protezione dall’esterno. Infatti, quando inizierete ad entrare nella realtà di We say goodbye, we always stay, vorrete rimanere chiusi là dentro, tra le sonorità indie pop proposte dal ensemble partenopeo.

Nove tracce (più una) intense e ottimamente arrangiate, nel pieno rispetto di incroci stilistici che sembrano dovere molto all’indie underground d’oltreoceano. Il disco, ricco di epifanie, narra, attraverso sentori Kings of Convenience e The Mainstream, dell’impossibilità di ottenere la propria salvezza, arrivando a celare un infinità di sensazioni armoniche e sognanti, aperte con The inheritance of loss. Il brano introduttivo, con il suo Fanfarlo style, si offre ad una maturazione indie pop, interpolata tra sensazioni in levare e giocosità espressiva, ben delineata dai toysound e dalla tromba di Fabio Renzullo. Il piacevole e spensierato incipit determina una chiara demarcazione sonora, immediatamente rivisitata mediante i tasti delicati di No Fly zone, che tanto sarebbe piaciuta a Mark Linkous. La canzone, di certo tra le più interessanti del full-length, riesce a sposare intuizioni accoglienti ed originali, portando il livello emozionale e quello contenutistico verso un ideale bilanciamento.

Le calde note della bassline aprono poi alla radiofonica Last two years, capace di conquistare sin dal primo ascolto, mentre non mancano approcci sognanti, proprio come dimostra The 4th row, riferimento stilistico al giovane Holden, né tantomeno curiosi rimandi a Yann Tiersen e Sigur Ròs (The givin’tree). L’apice espressivo si raggiunge poi con il coraggio minimale di Supermela, brano strumentale da assaporare in un osservativo silenzio emozionale. Un brano manifesto, delineato da un delicato rincorrersi di note danzanti, la cui regolare cadenza mostra le migliori intuizioni della band.
Se poi ci si perde nel tentativo sintetico di 22, brano non troppo in linea, con i brividi provocati da …and that’s why i’ll always miss you e A finger in the brain, si torna ad un curioso intreccio tra il sapore vintage è una struttura liquida. A chiudere il disco è infine Il professore, bonus track cantata in lingua madre, che offre un curioso featuring con Gnut. La traccia, immersa in una riuscita cantautoralità sognante, impreziosisce un disco da ascoltare a palpebre serrate.

Insomma un album che si presenta come una straordinaria e delicata ventata di freschezza; un’ opera pensata con il cuore.