Arctic Monkeys – Hambug. recensione

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Partire dalla semplice distribuzione di un demo su internet per poi andare incontro al proprio destino: è la storia che tutti i musicisti vorrebbero sentire, ma semplicemente, nella maggior parte dei casi, le band si riducono a tentare di vendere i loro lavori durante i concerti rimanendo nell’anonimato. Avere un’idea geniale permette a chi l’ha avuta di distinguersi dalla massa e così catturare l’attenzione di “condivisioni”, “amici” e sopratutto produttori. “Five Minutes With Arcitic Monkeys” fu il primo demo ( di sei minuti ) inciso dalla band inglese che gli fece avere maggiore visibilità. Oggi, tutto il mondo li conosce.

Artisti molto particolari, gli Arctic Monkeys hanno saputo crearsi una sorta di alone di mistero nei primi tempi, per la loro volontà di non voler apparire in televisione. Qusto ha maggiormente attirato molti adepti dell’indie rock, i quali hanno trovato in questi ragazzi britannici un’ennesima espressione della più moderna forma di sperimentazione della musica. Purtroppo, nonostante i primi due album ( ) abbaino ricevuto molte buone critiche e grande consenso per gli ottimi testi e la strana metrica che usano per la musica, entrambi sembrano non avere quella caratteristica che è propria del genere di cui loro sono portavoce: l’innovazione. Per fortuna la loro evoluzione non si è basata sul semplice concetto di voler cercare dei fans, ma sul duro lavoro e sul voler creare qualcosa di nuovo che confermasse il loro talento: “Hambug” ne è la prova.

Completamente diverso dai lavori precedenti, il nuovo progetto ci conduce in un mondo ricco di donne e grandi storie che, però, mostra un gruppo ancora in cerca di una determinata strada da seguire per il prossimo cd, poiché non tutte le canzoni possono ritenersi degne di nota. “Hambug” si apre con un brano che sembra ancora ancorato al vecchio stile ( “My Propeller” ), ma che subito lascia spazio a delle strane tonalità che assumono una forma cupa nominata “Crying Lighting”, il primo singolo estratto dalla band. Ma, alla luce del terzo brano ( “Dangerous Animals” ), quel barlume di novità sembra un vago ricordo, finchè non arriva “Secret Door” a consolarci. Il seguito è una sorta di spirale verso il passato: si parte da delle influenze prettamente rock ( “Potion Approaching” ), per passare poi alla delicatezza della chitarra acustica ( “Fire And The Thud” ) per poi confluire in brani che accennano a dei suoni più rudi, ma non tanto distanti dai precedenti lavori; ecoc, però, all’improvviso, un tono vagamente punk ( “Pretty Visitors” ), che sembra attirare l’attenzione dell’ascoltatore a tal punto da dimenticarsi di chi sia il cd che ha appena comprato. Il tutto culmina, di nuovo, in un mondo cupo fatto da “The Jeweller’s Hands”, la quale si impone come la giusta conclusione del progetto musicale degli Arcitic. In più, due bonus track: “I Haven’t Got My Strange” e “Sketchead

E’ possibile notare che, nonostante non ci siano più grandi storie di vita vissuta e della strada, gli Arcitic mantengono il loro stile nei testi, immettendo molte parole nell’ambito di una strofa ed usando un ritmo per elencarle non molto facile da gestire, che permette di mettere in risalto, almeno stavolta, le doti del cantante ( Alex Turner ) che sa cimentarsi al meglio in tutti i generi che l’album propone. Ma non è solo questo: gli Arctic sembrano essere maggiormente consapevoli delle grandi potenzialità che hanno, ma l’unico problema è il riuscire a mettere bene a fuoco la direzione in cui vogliono andare, per il semplice fatto che la collocazione dei brani sembra molto casuale e soprattutto il livello dei buoni prodotti non è pari a quello delle parti più mediocri. Tutto ciò non determina, però, il fatto che l’album “Hanbug” sia un grande passo avanti nella loro carriera.

Si spera che per il prossimo lavoro gli Arctic riescano a dare il risultato che tutti ci aspettiamo.