Bare Bones – Bryan Adams. Recensione

Cd Cover

Normalmente qualsiasi rocker che si rispetti, nella sua carriera, dedica una parte più o meno importante della propria espressione artistica (sia essa live o in studio) alla dimensione acustica e Bryan Adams certamente è uno di questi.
Infatti, dopo “appena” 13 anni dall’uscita del suo MTV Unplugged, pubblica oggi questo Bare Bones presentando, come suggerisce lo stesso titolo, 20 pezzi del suo ricco repertorio in una versione assai più scarna (praticamente solo chitarra acustica e/o piano) e nuovamente dal vivo.

Per chi, come me, ha assistito ad un suo concerto, la scelta non può che essere condivisa in pieno, visto che i momenti più belli, quelli cioè che alla fine lasciano impressa sull’iride qualche immagine indelebile, finiscono coll’essere proprio quelli più intimi e (musicalmente) essenziali.

Fra questi, poi, le ballate occupano certamente il posto d’onore, visto che il cantautore canadese può esserne considerato uno dei più efficaci “produttori” al mondo (ma quante colonne sonore avrà fatto?), avendo fatto sognare una generazione intera (ahi me…quella degli attuali quarantenni), con canzoni romantiche come “Everything I do…I do it for you” (da Robin Hood) o “Heaven”, per le quali ogni ulteriore commento risulterebbe pleonastico.

Le canzoni sulle quali vale la pena puntare un (nuovo) faro, a mio avviso, sono piuttosto quelle meno conosciute, che ci accingiamo a segnalarvi.

“Here I am” (dal film Spirit) con l’armonica d’accompagnamento è la prima piacevole sorpresa. Di colpo il nostro Bryan orienta l’orecchio del suo fan sulla lunghezza d’onda di gente come Young, Dylan o Springsteen e devo dire che l’accostamento non stona affatto, pur non avendo una propria tradizione folk minimamente comparabile con certi mostri sacri.

Sprizza di originale sensualità ad ogni nota “Let’s make a night to remember” (già il titolo è tutto un programma), dal fortunato album “18 til’ i die”. Adams canta così efficacemente la strofa: “I love the way you wanna do everything but talk, how you’re staring me with those undress me eyes, your breath on my body makes me warm inside”, che se ascoltata con buone cuffie su un comodo divano l’immaginazione quasi materializza la scena. Decisamente da evitare per i cardiopatici.

“The way you make me feel” è una vera e propria chicca. La prestò diversi anni fa all’irlandese Ronan Keating, per il suo album d’esordio, il quale ne fu degno “depositario”, ma in questa versione ci sembra rivalutata al meglio. D’altronde chi meglio di un “padre” sa come trattare i propri “figli”, giusto?

L’immancabile ironia scenica di Bryan emerge, invece, con “Please forgive me”. Questo lentone, pescato da “So far so good”, in realtà avrebbe meritato un’esecuzione coerente col testo (cioè una seria dichiarazione d’amore) ed invece lui, ad un certo punto, inizia ad imitare il Boss con una marcata voce nasale che fa scoppiare a ridere l’intera platea. Da una parte un peccato, ma dall’altra evidenzia la sua qualità di entertainer in un concerto che, per lo schema ridotto prescelto, avrebbe forse rischiato un po’ di annoiare i fortunati fan presenti.

Per congedare l’arena, quale scelta migliore della splendida “All for love”(ecco qui….un altro film, “I tre moschettieri”)? Qui suona davvero speciale in quanto la versione originale era addirittura a tre voci (con Sting e Rod Stewart), e soprattutto perché in versione “stripped” risulta molto meno pomposa.

In generale consigliamo questo disco a tutti coloro che amano le canzoni “con la spina staccata” e siano predisposti ad ascoltare una percentuale molto elevata di low tempo. Per gli altri, magari, sarà meglio saltare un giro e buttarsi su qualcosa di più movimentato.