Blood On The Tracks – Bob Dylan (1975)

A beneficio soprattutto di chi sta seguendo da un po’ questa nostra rubrica “Dischi da isola deserta”, vorrei evidenziare come, fino ad ora, non abbiamo ancora recensito un disco della decade che probabilmente ha visto nascere il maggior numero di capolavori della storia della musica pop / rock: gli anni 70. Dopo aver presentato perle degli anni 90 come “Automatic for the people” o degli 80 come “Back in black” e “Sign of the times”, è arrivato finalmente il momento di gettare la rete nel lago più grosso e il nostro amo non poteva che pescare un disco dell’artista forse più influente della musica moderna: Bob Dylan (ora insignito anche del Premio Nobel per la letteratura…non a caso).

Nel 1974 il Menestrello di Duluth veniva da un periodo discograficamente non proprio esaltante, specialmente se comparato a quello che diede vita agli album che vanno da “Freewheelin’ Bob Dylan” (1963) fino ai due capolavori assoluti quali “Highway 61” e “Blonde on blonde” (65 e 66). Nella sua vita privata recente c’erano stati due scossoni forti: prima un incidente in moto nel quale aveva rischiato addirittura di lasciarci le penne e poi, a livello sentimentale, il rapporto con la moglie Sara che si stava deteriorando in modo irrimediabile. Con questo spirito inquieto Mr. Zimmerman entrò in studio per registrare un disco tendenzialmente acustico, a dispetto dell’ormai storica svolta elettrica, con alcuni pezzi che avrebbero, di fatto, lasciato un solco indelebile nella sua carriera.

Nella prima fase gli diede una bella mano il compianto Phil Ramone, notoriamente molto discreto, ma perfezionista, che sapeva bene come lasciar sfogare un tipo di quel calibro in un momento così magico di creatività, avendo già lavorato con dei veri e propri “tori da corrida”, come Frank Sinatra. Viste le difficoltà dei vari musicisti nel comprendere esattamente come approcciarsi al fiume in piena di Dylan, Ramone fece fare a tutti un passo indietro aspettando che si esprimesse a modo suo, per poi intervenire solo in un secondo momento. Del lavoro finale però Bob non era totalmente soddisfatto e riascoltando i pezzi volle registrarne nuovamente la metà, con un contributo importante del fratello David Zimmerman. Nella fase di mixaggio, alcuni pezzi che normalmente avrebbero richiesto d’essere ritoccati, per migliorarne la resa, furono poi lasciati così com’erano venuti da Paul Martinson. Il risultato sicuramente premia queste scelte.

Il lato A è da urlo aprendo con “Tangled up in blue”, dalla melodia avvolgente e con un testo interminabile che accompagna fino alla coda strumentale, dominata dall’armonica dello stesso Bob. Segue la ballata acustica “Simple twist of fate”, brano esteticamente eccezionale, più lento e cullante, che parla degli scherzi del destino in una storia d’amore dolce amara. Il personaggio maschile del pezzo potrebbe essere verosimilmente Dylan stesso, visto che a un certo punto si sveglia in una camera d’hotel scoprendo che la sua donna se n’è andata e, guardandosi dentro, capisce che, in fondo, la cosa non lo tocca più di tanto. La sua musa di quel periodo Joan Baez, la farà propria, inserendo una propria versione nel suo disco più bello (“Diamonds & rust”), uscito lo stesso anno (1975). “Idiot wind” è forse la canzone sentimentalmente più feroce, compensata però subito dalla dolcezza della romantica “You’re gonna make me lonesome when you go”.

“Blood on the tracks”, che segnò il ritorno alla casa discografica storica dell’artista americano (Columbia), è in pratica un pozzo senza fondo per tutti gli amanti della musica folk, considerando che, tra le altre, contiene anche quella perla assoluta dal titolo “Shelter from the storm”. Commovente e rassicurante, sia nel testo che nella melodia, proprio come tutto l’album che stupisce ancora di più se si tiene conto della tempesta sentimentale che stava vivendo il suo grande autore quando, per nostra grande fortuna, lo registrò.

Disco semplicemente fantastico.