Boban.fm, recensione

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I Boban credono nel Did It Yourself, non hanno confini stilistici ed aggrediscono le note osservandole, mutandole e diversificandole. Sono in tre, ma si accompagnano ad idee e coraggio, liberi dal voler diventare, ma ancorati al voler essere.

Nati dalle polveri milanesi dei Jerrinez, ci raggiungono con un disco eclettico, ma al contempo distante dagli estremismi iperalternative. I suoni rigorosamente analogici si estendono su sei partiture da suonare ad alto volume, in grado di convogliare un target diversificato…ma preparato ad un approccio unpopular della musica.

Un inquieto di ipnotico suono si pone come attacco all’iniziatica Zvonimir, curiosamente esplicitata dalla telecronaca anni ’90, in cui la voce croata del sampler si pone come elemento introduttivo ad uno dei brani migliori di questo album. Chi ama I God Speed You Black Emperor ritroverà di certo sentori riconducibili ad alcune forme di post-rock radicato, pronto a mutare verso l’utilizzo di sonorità abili a lambire generi differenti. Così, infatti, accade in Kamerati, un mondo oscuro è disorientante, che si appoggia ad una riuscita bass line, pronta a dominare una struttura per certi versi vicina ai CCCP degli esordi, sia come impostazione sonora, sia per una ridondanza tormentante del narrato.

Il vento sonoro ci trascina senza soluzione di continuità verso Orwell, ideale lente di ingrandimento su di un’indefinita anima onirica, posta ai confini del credo Barrettiano, grazie ad atmosfere ovattate dall’ipnotico drumset. I giochi espressivi delle toniche mostrano uno scheletro evocativo ideale per rapire l’ascoltatore verso un mondo animato da vortici e ridefinizioni soniche. Da qui si parte per attraversare poi la “metropoli” di Fritz Lang, accompagnati dalle note legate ai posati silenzi di un grigiore metaforico, chiuso dai vocalizzi utilizzati come strumenti complementari e da un uso metodico dei piatti. Nell’attesa di un’inevitabile implosione, infatti, il climax sonoro, preparato nella prima parte del brano, trova il suo apice nella maturazione del brano stesso, ancora una volta volto a desertiche sensazioni post, che delimitano un sentiero apparentemente senza fine.

Attraverso l’uso sapiente e corrosivo della sei corde, la chitarra restituisce con naturalezza brani di rilievo, chiave di volta dei curiosi rimandi alla Milano passata, raccontata in maniera multiforme da un monologo anarchico (Parco Lambro 1974) e da una strutturazione rumoristica (Telespazio) che rende merito alle idee di questo sorprendente trio alternativo.