Chlorophyl*

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Un bianco candido tra le sfocate nebbie di un mondo definito in scale di grigio, un insieme di macchie irregolari e lenti cromatismi che fungono da rappresentazione allegorica, i cui sviluppi emozionali appaiono al servizio del quadro pittorico-fotografico immortalato da Lucilla Ricci, autrice degli scatti del debut targato Chlorophyl*, band romana al cui vertice troviamo Cristiano Del Rossi, voce ed anima di questo project.

Nove tracce raccontate dalle pelli di Pierluigi Campa, dalle corde di Luca Balestra e Federico Camici, strumentisti di livello pronti ad accompagnare le sensazioni nascoste di un ricercato lirismo, immerso in eteree note che cambiano, maturano e viaggiano su binari paralleli.

Il debut si apre con un esempio accorto e ben definito del songwriting, che pur lasciando il dubbio sulla scelta linguistica, guida l’ascoltatore verso una selva malinconica ed interpretativa di un mondo che scorre lento davanti ai nostri occhi:

I’m painting up your rainbow
Which died on a December
Darked by the night
Just when your light had to shine

Proprio tra le pieghe della lirica oscura, la traccia iniziale appare riversarsi su intenzionalità filmiche, in cui i bordi della scenografia si muovono camminando tra un enclave di innalzo sonoro ed un pensoso utilizzo di chitarra, capace di trasportare l’astante attraverso un livello descrittivo più intenso. Nonostante una percettibile melanconia, Leaving today sembra poi ricordare alcuni passaggi artistici degli …A toy orchestra, proprio come accade in Laughts and coffees, la cui solitudine oculata si concede all’easy listening con It’s not late, perfetta nella sua base ritmica, anche grazie a basso e batteria in grado di governare con fermezza i passaggi di strofa.

Il sentiero con l’asterisco ci conduce poi nella soffusa Shame, traccia palesemente vestita di un indie pop che si traduce in lo-fi attraverso Fields of unfairness e in redhot style con Girl(on your side of bed). Se poi non troppo convincente appare la struttura di A small place, di risalto appaiono le intense sonorità di What a mess, track che, attraverso il suo curato cambio direzionale, rappresenta un’ottima chiusura, grazie alla leggera e sognante melanconia finale, atto di chiusura per un disco che forse manca di profondità sonora, ma che racchiude una sequenza di convincenti approcci artistici.