DAP “Resonances”, recensione

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Quando arrivano in redazione dischi come quello di DAP, targato Toto Sound Records, torno a pensare alla tristezza intrinseca del concetto di mp3 e wav. Insignificanti non-contenuti fluidi che viaggiano veloci, tanto quanto veloci si perdono nel nulla.

Il disco, inteso come oggetto… non ha prezzo, soprattutto per chi vive la musica come un bene (quasi) primario. L’effetto estetico ed avvolgente dell’ ascoltare un vinile, una tape o un cd “reale” non sarà mai raggiunto da una porta usb. Un concetto forse impopolare, forse elitario, ma di certo reale, perché, come continua a dimostrare il mondo della musica, il disco, inteso nella sua accezione più ampia, esiste soprattutto se lo si vive nei suoi diversificati cromatismi.
A percepire l’importanza della veste, o meglio del contenitore, è questo giovane e sorprendente musicista pisano, in grado di racchiudere la poetica della sua opera all’interno di un packaging originale, che vale da solo il prezzo del disco. Una cornice cartonata al cui interno si trovano dieci polaroid ispirate ai brani. Fotografie scattate dal cantautore stesso nella ricerca trans-mediale di raccontare il brano anche attraverso l’immagine, mostrando un lato complementare al lettering.

L’antico rumore di una vecchia Polaroid invitano l’ascoltatore nel magico e visionario mondo di DAP, raccontando il delicato incipit di Resonances, full lenght attraversato dalle strade impolverate ed osservative del folk venato di rock. Una ricerca di un anelato sollievo sonoro, posto sulla giusta strada, da percorrere con pacatezza attraverso l’approccio di note docili e controcanti funzionali, che restituiscono sin dal primo ascolto un avvolgente impatto sonoro.

La poesia sprigionata dagli scatti fotografici ci traina verso i passaggi immortalati dall’aria vintage, posta sull’immagine di Eye for an eye, in cui le corde strappate in Ani di Franco style, dominano l’impronta estesa del brano. Un’impeccabile atmosfera, abile nel raccordare spezie alternative con un impatto sonoro più diretto e mainstream, che a tratti sembra ricordare la vocalità di Adam Duritz.

La breve traccia rilascia poi le giuste polveri per immergere la mente tra le nere sabbie di Stromboli, nella cui partitura si innesta Sara Sileo voce espressiva pronta ad allinearsi alla direzione dettata dal pianoforte prima e dal calore emozionale di Andrea D’apolito poi, protagonista di uno dei migliori dischi alt-folk di questo mese.

Le note alte, racchiuse da giochi sonori legati alla tromba di Paola Fecarotta, abbracciano un mondo senza confini, portando l’attenzione verso le note che scendono come lava cadente sulla partitura, per soffermarsi con originalità sul post pop-grunge di Come when i call, in cui la sezione ritmica si pone su di un orizzonte ammaliante.

A chiudere il cerchio (permettemi la banalità…) perfetto sono la tradizione lambita da Not again, brano dalle andature country-folk raccontata dal suono resofonico di Alessio Magliocchetti Lombi, e la Perla finale, in cui il cantautore gioca con le percussioni posate su estese suggestioni d’oriente, pronte ad incanalare il proprio movimento acustico verso l’ottimo lavoro di bass line.

Un disco, dunque, che tra diversificati featuring e forti emozioni, racconta un chiaro talento.