Electroadda “Electroadda”, recensione

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Un semplice packaging cartonato, bianco avorio, opaco e privo di indicazioni precise, salvo una semplice scritta: “Electroadda”, riportata al centro della cover art come appena battuta a macchina. Il candore estetico che sin dal primo sguardo impatta con l’astante, viene gentilmente sporcato nella back cover con una piccola piramide creata dai colori primari, che evolvono nell’inlay grazie al cerchio cromatico che sta alla base della teoria dei colori. Un contrapporsi emozionale tra colori freddi e caldi, metafora inusuale delle cinque tracce, corpi essenziali di questo interessante debutto della band lombarda.

Nati ufficialmente solo tre anni addietro, ma attivi dal 2004, il duo composto da Carlo Frigerio alla batteria e Leonardo Ronchi alla voce e chitarra, arriva a noi grazi alla Blob Agency, sempre più attiva nella ricerca di talenti celati dalle polveri dell’underground.

Il disco, o meglio, l’extended played racconta, tra stilemi psico-electro rock, un mondo poliedrico, in cui l’impatto espressivo appare diretto e privo di orpelli fine a se stessi. Infatti, proprio come dimostrano i ricami synth dell’ overture ( A better life), i colori del mondo narrato sembrano schiudersi dinanzi ad una proiezione emotiva, vicina ai cromatismi positivi di un mondo sonoro definito con accortezza.

A dare risalto all’opera degli Electroadda è senza dubbio Star Girl, grezzo rimando al classic rock. La traccia, animata da un riff portante, racchiude una delle tante essenze della band, qui disegnata sugli offuscati contorni di una linea vocale perfetta nel suo esistere. Un approccio artistico in grado di rinverdire impronte di fine anni’70, attraverso strutture alternative abili nel muoversi su di un tappeto ritmico basilare, annodato su intuizioni strappate e distorsioni necessarie. Il guitar solo, breve e funzionale, porta poi verso Rabbits’hill, delizioso estraniamento onirico in cui l’ascoltatore viene accompagnato verso Sandleford con spiriti pinkfloydiani e alterazioni sonore, pronte a viaggiare da un’iniziale aria sintetica verso un’anima rock.
L’impressione di accuratezza si conferma, infine, negli arrangiamenti lineari e nelle note inquiete e lisergiche di Tired intro prima e Tired poi, doppia espressività legata a note giocose, aperte e desertiche, che disegnano immagini ipnagogiche di un risveglio accogliente e dolce. Una sorta di ballad dagli spiriti blues, che sembra voler vivere un tempo lontano tra reminiscenze The Band e il più classico rock and blues, sino ad implodere verso modulazioni pseudo grunge.

Una band, dunque, da tenere sott’occhio e un disco (bello) che, partendo da idee primarie, riesce a convogliare a sé un’incredibile serie di good vibrations.