Erio “Fur el”, recensione

erio.jpg

C’è una nuova “Tempesta” emozionale in arrivo; il suo nome è Erio e porta con sé il calore accogliente di un antico vello. Un viaggio profondo ed espressivo, raccontato da illusioni sonore, visionarie e delicate, che a tratti riescono a mescolare surrealismo etereo con sonorità dirette e avvolgenti.

Erio (Franovich) arriva al suo straordinario debut album dopo l’uscita di due 45 giri (purtroppo digitali) in grado di definire l’arresto di un mondo chiuso nel proprio vortice, per donare con genuinità e docile emozione, una visione quieta e sognante di un anomalo reale, posto ai margini di sensazioni nordiche.
Il disco, che sembra liberare la mente dell’ascoltatore attraverso la sincrasi tra elecro-pop e indie, invita all’attenzione e (al contempo) all’estraniazione, mediante un percorso omogeneo, ma disorientato da stratificazioni vocali e dicotomie elettro-acustiche.

Il mondo descritto da Erio è immerso nella natura, proprio come parte della sua narrazione, qui visualizzata dalla cover art stessa, ideale a definire uno specchio introspettivo e a tratti metaforico di una narratività aperta e stilisticamente interessante.

Un approccio lieve ed intimista della sei corde apre la via agli echi posti su Oval in your trunk, in cui la voce gioca a rincorrersi tra echi e poliedriche divaricazioni poste su andamenti elettronici, sempre avvolti da una delicatezza sorprendente. Un incipit di valore estetico, in grado di offrire al meglio, a chi è avvezzo al mondo lo-fi, le note sognanti di questo Fur el.
I ricami sintetici, i filtri e il giochi balance aprono al minimalismo terminale per poi evolvere in We’re been runnig, in cui torna preponderante il tema della natura, caro all’autore stesso. Le note paiono impronte che vocalmente tendono a portare ad estese sonorità nordiche, legate da una diretta e sognante godibilità.

Se poi con Torch songErio gioca a rincorrere le note mediante un approccio pop indie, con inattesi passaggi si pone sui confini di una stranita rappresentazione di sé, alimentata dagli archi e da un certo tipo di trip hop.
Il cuore battente del disco trova infine il suo naturale apice sonoro in What you could have said when he died, but never did, in cui l’emotività melanconica cresce verso note alte non troppo discoste dall’arte canora di Antony and Johnson. Sul medesimo piano espressivo ritroviamo poi i movimenti di Lanses, chiusa tra stop and go, e la metodica riflessiva di Room 4, in grado, con il suo cadenzato andamento, di parlare agli astanti con intrecci avvolgenti.

Insomma, un disco davvero sorprendente, in grado di aprire la propria anima all’indie e alle tendenze alternative per conquistare con i suoi riflessi dorati, talvolta algidi e per certi versi claustrofobici.

Un’opera che non lascia dubbi.