Finister “Suburbs of mind” recensione

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Sono giovani, molto giovani…e lo si vede, ma a dire il vero non lo si sente.
Si chiamano Finister e giungono a noi marchiati da gonfalone gigliato, proprio come la loro label (Red Cat Records).

Partito da Firenze in un passato molto vicino a noi, il quartetto, spogliato di presunzione e banalità, raccoglie idee (chiare) ed impulsi cangianti, arrivando a dare alla luce dieci tracce che, se non fosse ordinario scriverlo sarebbero considerabili fenomenali. Una sorpresa nascosta dietro la delicatezza espressiva della cover art e del booklet curati da Lavinia Bussotti, ingegnosa nella sua diretta semplicità. Pennellate dirette, istintive ed efficaci in grado di dare spazi e dimensioni ai testi, proprio come riescono a fare le partiture stesse.
Il mondo dei Finister appare sin dal primo incontro una realtà inevitabilmente influenzata dal recente passato alternativo, qui mescolato a prese di psychorock moderato, intercalato tra il mondo dei Muse e quello dei Radiohead, senza dimenticare striature Marillion e (detto con le dovute attenzioni) Pink Floyd, toccati da percettibili andamenti lisergici.

Senza dubbio però è la matrice armonica (e per certi versi easy) a destare l’ascoltatore, conquistandolo a prescindere dalle luci di genere.

A dare iniziazione al percorso artistico è The mornig Star, una piccola ed ipnotica onda oscura che va a toccare sviluppi Cure, disturbati da un particolare arrangiamento, pronto ad evolversi verso un territorio più alternative rock. Nonostante una linea vocale non particolarmente originale, la band offre la propria creatività in maniera diretta e naturale, proprio come dimostra Bite the snake. La traccia inizia con una gentile aurea psychorock dalle modulazioni vintage, i cui battiti sintetici paiono pronti ad inerpicarsi verso un rock easy, delimitato da ridondanze stoner. L’interessante tappeto psichedelico, che funge da backgrond al brano, giunge ad una completezza espressiva grazie a sentori arabeggianti che indicano la via verso la bellissimaThe way (I used to know).

Non ci si annoia certo nel mondo dei Finister, come dimostrano gli spigoli acuti di The key e Adecadent story, in cui le toniche nereggianti sono poste a dominio della traccia oscura. Un curato e straordinario lavoro alle pelli che va a cucirsi con il riff di chitarra in Kevin Wasserman style.

Mentre la delicata dolcezza di My Howl conduce agli accenni prog di Levity, l’impatto narrativo del violoncello, ridefinisce i contorni di una voce soffusa, pronta a coniugarsi con espressività elettriche vicine alle strutture horrorifiche di John Carpenter. Non mancano poi distesi silenzi (Here teh sun), né i dolci passaggi di Everything goes back, le cui striature Santana si avvicinano per emotività all’apice descrittivo da Oceans of Thrills. Una melodia accattivante ed accogliente, resa ammaliante e di facile impatto per mezzo di una struttura acustica, profonda ed emotiva, capace di mescolare sensazioni dalle tinture alt-folk

Un disco dunque da osservare ed ascoltare nella convinzione di essere di fronte ad una delicata goccia di un mare in attesa.