Fungus “The face of evil”, recensione

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Dopo poco più tre anni, eccomi qui nuovamente a raccogliere le spore dei Fungus, quintetto genovese dedito al più profondo e classico progressive rock, ancora una volta cinto attorno a sensazioni librate tra psichedelia, accenni hard rock, e venature folk di carattere vintage.

La nuova riuscita release sembra voler perseguire il sentiero calcato dal precedente Better Than Jesus , attraverso 10 tracce, grazie alle quali la band termina il cammino solitario dell’autoproduzione, arrivando a stringere un’interessante partnership con la Blood Rock Records, label genovese che aggiunge al proprio rooster una band di reale prospettiva, grazie anche alla distribuzione attenta da parte della storica Black Widow.

Questa nuova Faccia del male ha inizio ben prima delle note stesse, per merito di un’interessante, ma a tratti poco definita, cover art, in cui un miscuglio metaforico di oniriche immagini definiscono un interludio grafico accattivante, nel quale perdersi durante l’ascolto. L’origine della vita, che sembra partire dal centro del dipinto, si fonde e confonde a richiami biblici, dai quali l’eterna dicotomia tra il male e il bene si mescola in una perversa allucinazione, dovuta e percepita a seguito dell’inquieta somministrazione della particola, che viene elargita ai seguaci in una comunione bislacca e sapientemente mal definita.

In questa sorta di filmico trait d’union con l’opera pittorica di Alessandro Mucaria, la band alimenta un dialogo interiore perpetrato, in maniera forse meno accorta, già nelle opere precedenti. Ma di certo non ci sono dubbi nel definire questa opera terza, come il disco che potrebbe dare lo slancio decisivo all’ensemble.

Ad aprire The face of Evil sono i sette abbondanti minuti della titletrack, ottimo opener da cui parte un giusto andamento, perfettamente interpretato da Dorian Deministrel che, rispetto al passato, dimostra, sin dalle prime battute, un quadratura di un magico cerchio, qui socchiuso da una partitura interessante che, attraverso piccoli cambi direzionali, porta con sé inquietudini ed aperture sognanti. Il brano avvolge l’ascoltatore in maniera climatica, attraverso momenti ridondanti, particolarmente funzionali ad una esposizione teatrale che sorprende negli spazi più rock. La traccia, pur perdendo parte della sua forza nel suo finale, complici back voice eccessivi, convince al pari di Gentle season, di certo tra le migliori composizioni del nuovo full lenght. Il brano, strizzando l’occhio alla semplicità, si pone sul dorso di una delicata composizione d’altri tempi, incanalata dal wah wah propedeutico all’esplosione in delay analogico. Il mondo si ferma ad ascoltare la quiete e le ottime intuizioni alla sei corde, atto d’anticipo dello schiudersi narrativo, pronto a ritagliare su di sé il solo di J.Blissett, purtroppo troncato da un inatteso e invasivo fade out.

Il viaggio della maturità artistica continua poi con The great deceit, in cui la voce si affianca a reminiscenze Serj Tankian, e l’immersione prog di Rain , che va a diluirsi su di un tracciato dai colori fortificati da Claudio Ferreri, versato nel gestire il vortice sonoro che si schiude in maniera deliziosamente scomposta nel cuore della traccia, pronta a farsi narrativa nella sua struttura finale, definita in maniera non troppo distante dal mondo musical dei tardi anni ’70. Proprio da questi sentori si riparte con le fasi iniziali di Better than Jesus, curioso atto di continuità concettuale, che manifesta uno spirito espressivo tipico di Stanley Kubrick, abile a costruire un sottile fil rouge ottimizzato nell’unire impercettibilmente le sue opere.

Se poi con Angel with no pain, attraverso una verve espositiva d’impatto, il gruppo si offre ai fan della prima ora, è con l’anima folk di The key of garden che il disco va a palesare personalità e coraggio; giocose spezie southern e risolute stesure easy, portano alla necessità di raccontare note, senza però fossilizzarsi dietro a cliché che non fanno altro che disidratare le idee.

Non mancano poi striature cripto new wave intercalate sul verbo prog (Share your Suicide III), né tanto meno diluizioni sonore evocative, proprio come accade nella chiusura The sun, che pecca forse di ostentazione, ma che ci restituisce finalmente una sezione ritmica agile e gradevole, proprio come dimostra l’anima noise della ghost track.

Insomma un disco che, nonostante l’eccessiva durata, ci racconta di cinque musicisti muniti di buone idee ed in grado di convogliare l’energia espressiva su di un binario pronto a varcare la soglia.