Geddo ” Non sono mai stato qui”, recensione

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Se Geddo fosse nato venti anni prima… avrebbe fatto parte della cosiddetta scuola genovese? Avrebbe nelle sue composizioni una più marcata influenza d’oltralpe?

Non lo sapremo mai, perché Geddo rappresenta il nostro presente, quello catautoriale di una Liguria vitale, capace di fornire le sonorità nobili e accorte di Federico Sirianni, Zibba e Max Manfredi, senza dimenticare la musica d’autore di Enrico Lisei, al quale la musica di Geddo talvolta si avvicina nei suoi lirici percorsi.

Davide Geddo arriva oggi alla sua seconda prova discografica, in cui il concetto di divenire sembra essere base portante di un percorso esperienziale ricreato attorno a curatissimi arrangiamenti disorientanti e variabili, proprio come il linguaggio dell’autore stesso, attento a ricreare sensazioni durature attraverso ironia, rabbia e sguardi disincantati di fronte ad un mondo in cui la fuga pasiliniana non funge da soluzione definitiva; infatti, le parole del cantautore sembrano nascondere la voglia necessaria di superare i nostri carceri mentali, per arrivare ad affrontare con trasparenza quei luoghi reali e metaforici in cui non siamo mai stati.

I diversi livelli di lettura delle 15 tracce offrono all’ascoltatore un diversificato approccio relativo, anche se l’eccessivo numero di composizione finisce per diluire l’intento iniziale, arrivando ad un calo attentivo, inevitabile e fisiologico. Infatti, pur nella sua poco funzionale durata, il disco si pone come chiave d’arco del cantautorato ligure, grazie alla diversificazione di linguaggi, sonorità e ritmi imponderabili nel loro susseguirsi. Un viaggio che rilancia minimalismi interpretativi, buscaglionesce trovate, teatralizzanti sponken word e approcci popular che rimandano all’arte musicale di Daniele Silvestri

Ad aprire il disco, promosso da L’Altoparlante, sono le dolci note di Venezia, in cui la brina iniziale è asciugata dalla sei corde di Mauro Vero, pronto a subire il processo di maturazione in itinere, offrendo spazio musicale al violino di Fabio Biale, funzionale quanto le venature rock di Dicono che io, la cui espressività è impreziosita dal back voice di Chiara Siriana Micheli. Se poi tracce come Sole rotto e Nancy risultano piacevoli, ma tutt’altro che memorabili, il meglio di sé l’autore sembra darlo attorno alle strutture anni sessanta di Tristano, da cui si ergono fiati raccontati sotto il sombrero.

Sulla medesima linea ritroviamo poi La campionessa mondiale di sollevamento pesi , i cui sofferti passaggi ci invitano ad un scarnificato rock’n’blues de gregoriano, e la splendida Angela e il cinema da cui si ergono timbri cari a Fred Buscaglione, sino a giungere a sensazioni John Di Leo. L’arrangiamento limpido e perfetto, nel suo dolce evolversi, evidenzia voli musicali capaci di affrontare diversificati elementi emozionali, al pari di Il post amore, in cui la voce di Chiara Ragnini merita un ascolto attentivo.
A completare il full leght sono la divertita filastrocca Piccolina, dominata dal contrabbasso swing di Carlo Dellepiane, e lo sguardo elettronico della titletrack, recitativa e teatrale, il cui soffice e ponderato cantato cita una certa tipologia di classicismo che tra fade in e fade out chiude a cerchio la seconda opera dell’autore savonese.

1) V enezia
2) Dicono che io
3) Angela
4) Tristano
5) Stare bene
6) Il post amore
7) Equilibrio
8) Dall’amore (interventi di modifica alla viabilità interiore)
9) La campionessa mondiale di sollevamento pesi
10) Piccolina
11) Sole rotto
12) Un pugno in un muro
13) Nancy
14) L’astronave di provincia
15) Non sono mai stato qui