Gentless3 I’ve buried your shoes down by the garden , recensione

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Questa volta, nonostante la mia parziale refrattarietà al freddo algoritmo di compressione audio, non ho potuto esimermi dall’accelerare i tempi, sconvolgere le priorità e piegarmi all’incoerenza del mio recente discorrere. Ho dovuto immaginare quello che in questo momento non riesco a vedere né a tastare con mano, ma questo I’ve buried your shoes down by the garden , rappresenta una goccia d’olio in un bicchiere d’acqua; una piccola ma al contempo matura opera dei Gentless3, che non poteva aspettare. Un disco che non vedo, ma che immagino in un elegante digipack cartonato nel suo old style, ispirato dalla cover art polverosa e ancorata ad un passato che sta per divenire remoto, anche se il trascorrere del tempo narrato sembra ancora dietro l’angolo. Il debut porta con sé quel sapore d’oltreoceano laccato di alternative folk, incastonato in vinile e digital-download per la Wild Love Record, preziosa realtà italiana dedita all’area indie.

Ad aprire il alto A è la dolcezza introversa di Since ‘98, composizione alternative di buon impatto sonoro. Pacata come una stesura di Mark Linkous e ben strutturata come una partitura anni 70. La voce calda di Carlo Natoli definisce al meglio le intenzioni del quartetto, capace di raccontare riff ridondanti e diluiti ,senza la volontà di piacere a tutti i costi, come dimostra l’introduzione di Comeback from, volutamente scheletrica e recitativa. Qui alcune linee di cantato rimandano a John McCrea prima e soprattutto Beck poi, senza però cadere in riferimenti voluti e forzati.

Le strutture proposte da coloro che affermano di non possedere gentilezza, esternano un’arte musicale quasi pittorica, concretizzata attraverso pennellate baritonali e un accurato songwriting. Tra i brani più sentiti ritroviamo On Busting The Sound Barrier, forse non perfetta, ma assolutamente magica con i suoi stemperati e desertici sapori sonori, da cui nascono sensazioni di metaforico disorientamento ( ..Forget about where you’re bound You’re bound for a three octave fantastic Hexagram..). Con Peggy and the houses ritroviamo poi lievi distorsioni programmatiche, che si riversano su un cambio direzionale, alquanto piacevole e atto a orientarci verso l’interrogativa Who’s, alto momento compositivo dal quale l’ensemble mostra di saper gestire sonorità tenui e delicate, rispetto alle quali appare inutile resistere, perché le soffici note nuvolari dei Gentless3 entreranno cortesi in voi, conquistando la parte deferente del vostro io. A chiudere il garbato effluvio di note sono la poco accorta e pinkfloydiana Alphabet City e Evidence, in cui un buon lavoro alle pelli introduce sottilissime linee di chitarra e una voce filtrata da effetti e back voice, mentre i tasti di Floriana Grasso, riescono a nereggiare e acuire le sensazioni ondulanti e ridondanti di una chiusura di livello.

Un disco che trasuda ideali nascosti e che sembra provenire dai vivaci sobborghi statunitensi per la sua verve compositiva che, forse non sorprenderà chi mastica Orso, Sufjan Stevens e Pedro the Lion, ma che non dovrebbe avere difficoltà ad emergere dall’usuale.