Good Falafel “Good Falafel”, recensione

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Senza nulla togliere alla nostra arte musicale, mai e poi mai avrei pensato di essere di fronte ad una band italiana; vuoi per il curioso nome, crocevia simbolico dello spirito orientale e del gelido e profondo nord, vuoi per le inusuali sonorità electro-dream-pop.

Si chiamano GoǾd Falafel e arrivano dal capoluogo siciliano, protetti da un dark taste figlio degli anni 80, qui virati verso una forte propensione lisergica, innestata tra aritmie estetiche e sintetiche. Infatti, il trio artistico, formato da Laura Messina, Vincenzo Schillaci e Marco Barcellona, si mostra abile incantatore di sinapsi, riuscendo a raccogliere a se cupe atmosfere malinconiche ed illusioni oniriche, ben metaforizzate dal lavoro di cover art, in cui l’antro della solitudine rappresenta la vocalità femminea, attraverso sistemi di vacuità, in grado di offrire rimandi iconici degni dell’arte islandese.

Il disco, promosso dalla Qanat Records, offre 4 tracce più 2 remix in bilico tra trip hop e altronica d’impatto, definita e libera da costrizioni, proprio come dimostra introduttiva Dark light, interessante single dalle tinte fosche. Un apertura minimale in cui la voce incantevole della frontwomen viaggia su di un reiterato trip hop, a tratti inquinato da intarsi supplettivi , che ne definiscono una gustosa e sognante ridefinizione di se. La traccia sembra volersi rinvigorire nel suo corpo, mostrando un attento incrocio tra note sintetiche ed altroniche, al servizio di una blanda vanità. Con la delicatezza wave oriented di Are you real? l’ascoltatore è poi invitato tra le onde nuove degli anni’80, abilmente mescolate al dreamart di inizio secolo. La voce, filtrata nella sua narrazione, mostra una marcata caratura, palesando rimandi Portiched, che, a scanso di equivoci, non portano a facili strutture comparative.

L’emozionalità del disco si apre ulteriormente con lo spettro di funereo The Third, in cui, complice l’organo e le sensazioni posate, portano in primo piano una coerente vocalità, atta a porsi in maniera drammaturgica ed inquieta, attraverso linee estensive che collimano con la varietà di intenti, capaci di re-distribuire le sensazioni verso sonorità più mansuete.

Tra vocalizzi sinfonici, echi e riverberi l’attenzione si posa infine sulla cardiaca introduzione di Fake fields and beautiful lies, il cui andamento etereo ricoperto di echi, si piega alla linea di note tanto ridondante ed ipnotica, quanto surreale ed inquietante.
Un disco, pertanto, che con i suoi simulacri di scratching e modulazioni space, sembra voler partire da una curiosa tetralogia visionaria, pronta a celare dietro le proprie trame un’arte compositiva dal sapore notturno e per certi versi surreale.