Hangarvain ” Best ride horse”, recensione

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Non osano molto, ma sembrano voler fortificare stilismi rock anni’90.

Si Chiamano Hangarvain ed arrivano da Napoli, trascinando dentro a questo debut esperienza, voglia di rivalsa e puro rock; poco importa se southern, glam, hard, heavy o grunge.

Il quartetto, mosso dal sacro fuoco delle note, partito dal Tennessee per arrivare al Cluster Studio di Cuma, giunge, grazie alla Red Cat Promotion a dare battesimo alle dieci tracce che, pur delineando un perfettibile approccio linguistico, riesce a convogliare le attenzioni dell’ascoltatore, attraverso una sapiente alternanza di movimentazioni acustiche e rigurgiti hard’n’heavy.

L’ascolto semplice e diretto della loro musica, permette, sin da subito, di entrare nelle strutture espressive di Sergio Toledo Mosca, voce ammaliante e contemplativa, il cui timbro rappresenta parte del successo di tracce quali Get on, in cui spazi Zakk Wylde ricamano su corde spoppate e pure rock. Proprio da qui sembra voler partire l’ensemble campano, con l’idea chiara di rispolverare antichi fasti poisoniani, tra dolcezza espressiva (Way to salvation) e sviluppi in battere (Knock back doors), spesso alimentati da spezie d’oltreocenao che, però, lasciano colpevolmente le basse note ad un background che avrebbe la necessità di rivedere alcuni spazi compositivi, talvolta appiattiti da arrangiamenti poco invitanti.

Il rock indurito dei Hangarvain ha però il merito di raccontare piccole storie attraverso un bilanciamento ottimale dei colori emozionali, definiti da inattesi spiriti glam (Turning back on my way), proprio come dimostrano l’estetica Father shoes e la conclusiva A life for rock’n’roll, che con la sua miscellanea di sporco blues, rock e rap, vale da sola il prezzo del biglietto.

Insomma…un disco che sembra nato per piace e piacersi nel nome di un rock dal sapore vintage.