Hangarvain “Freaks”, recensione

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Sono passati soli due anni, ma più di 100 live, da quando, chiudendo la mia recensione di Best Ride Horse, scrivevo: “…un disco che sembra nato per piacere e piacersi nel nome di un rock dal sapore vintage.”.

Proprio da qui vorrei ripartire nell’analisi di questo secondo capitolo degli Hangarvain. Un nuovo interessante lavoro nato tra il golfo di Napoli e gli Sage Studio di Nashville e posto su di una linea ideale, disegnata con l’intento di concretizzare non solo un ricco e corposo southern sound, ma anche riuscite reminiscenze grunge, poste ai margini di un mondo Freak. Una realtà (però) lontana dall’immaginario iconografico di Tod Browning, ma vicino alla concettualità “speciale” che si lega al curioso hashtag #stayfreakstayfree lanciato dalla band partenopea con l’intento di restituire libertà al proprio essere.

Il disco, rilasciato dalla label indipendente Volcano Productions, ripercorre le sensazioni del suo predecessore, mostrando una notevole cura artistica, non solo attraverso l’uso di un sound potente e profondo, ma anche mediante un riuscito studio grafico che, grazie ad un font accattivante e ad una cover art desolante e pseudo orrorifica, riesce ad abbracciare l’ascoltatore per trascinarlo tra le note del full lenght.

Con questo disco la band sembra trovare immediatamente il proprio apice espressivo, grazie alle sonorità Seattle di Keep Falling. Venature soundgardeniane, in cui si inseriscono in maniera armonica le espressività tipiche dei primi Stone Temple Pilots. Una lirica armonizzata alla perfezione, che pare annoverabile tra le tracce più interessanti del disco. Un’overture pronta a offrirsi, con cambi stilistici e ritmiche metodiche, ad una calibratura ideale, nonostante l’invadenza dei back voice.

Con la titletrack andiamo, invece, verso un southrock basato su silenzi e ripartenze, dettate da ritmiche battenti, in cui l’uso essenziale del drum set definisce una linea narrativa ideale per ergersi verso il riff di Sliding to hell, deciso easy listening che anticipa il dolce arpeggio di Dancing on a whisper, impeccabile nelle sue strofe delicate.

Il grezzo battito delle pelli di Devil of the south ci porta poi verso la dolcezza osservativa di Like any other, in cui il rumore delle dita sulle corde animano e raccontano la genuinità espressiva della traccia. Mentre con A coke shot torniamo sulle tracce di Scott Weiland il cerchio si chiude infine con il rock banale di Stuck in Arizona, forse unico neo evidente dell’LP, e i riusciti richiami Soundgarden di Ten years waiting

Insomma, dieci tracce dirette e prive di fronzoli che, nonostante alcune inevitabili ombre, raccontano la band, confermando le ottime vibrazioni del debutto, senza però riuscire nell’intento di sorprendere.