Holiday in Arabia “(Opening ending), recensione

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Ci sono cose che colpiscono ognuno di noi in maniera soggettiva, esiste sempre ed inevitabilmente una ben definita sfera personale che, volenti o nolenti, influisce ed influirà sempre sui nostri giudizi. Quello che fuoriesce dalle penne, o meglio dai tasti d’input della tastiera non può essere considerato in maniera asettica. L’oggettività si nutre, almeno in piccola percentuale, di individualità. Tutto alla fine ha il tempo che trova e tutto, nel suo incessante scorrere, può essere visto ed osservato sotto luci diverse di un proiettore poliedrico, incapace di definire l’assoluto. Inoltre appare inevitabile definire il tempo come un elemento fondamentale del giudizio, in preda ai mutamenti emotivi che ognuno di noi vive implicitamente e esplicitamente. Spesso considerando questo punto di vista come basilare per la mia professione, ritengo inevitabile gestire con i guanti il concetto di luogo e tempo, variabili fondanti per ogni sensazione che costruiamo attorno al nostro vissuto. Infatti Avrei potuto ascoltare e giudicare questa new release dei Holiday in Arabia, in modo diverso se l’ascolto si fosse posizionato altrimenti nell’asse del tempo. La buona valutazione del disco è dunque definibile in senso relativo e volutamente soggettivo per il suo narrarsi attorno ad uno splendido monicker, dietro il quale si nascondo Marco Ghidelli e Sebastiano Confetta, duo elettronic-rock di stampo sperimentale.

L’album Open ending richiama l’arte filmica del finale aperto, arte visionaria e dotta di lasciare al fruitore dell’opera il compito di elucubrare sul proseguo stilistico, senza essere fagocitato banalmente in un termine che non lascia spazio espositivo alla naturale voglia di relatività; la stessa aspirazione con la quale per una volta ho intenzione di commentare un disco curato con attenzione in ogni suo dettaglio, sempre con l’intento di inseguire una sinergia artistica tra definite sensazioni post-indie-psichedelia ed elettronica.

Il disco, uscito per la parigina Baffo Music, trova il suo asse di partenza in un ossatura electro pop, portata verso sensazioni new wave, dark e sperimental, senza mai voler tracciare un metodico e didascalico itinerario. Le nove tracce raccontate dalla matita di Fausto Gilberti, hanno inizio con l’introduttiva 1960, la cui aurea magica viene mescolata ad una ponderata sensazione retrò, persa nel suo battere metodico, aperto a screziature electronic space. Il fil rouge proposto dalla composizione iniziatica, muta il suo andamento in maniera leggera e sensibile, grazie anche ad un apporto in battere, che divide il palcoscenico con echi e diluizioni, per un tracciato strumentale capace di inoltrarci in un mondo surreale.

Con la sucessiva Cosmos l’elettronica avanza prepotente, verso un viatico che si interpone tra easy listening e una concettualità più spiccatamente altronica, in cui la voce si confonde sul battito regolare e ridondante di una lineare struttura. In questo spazio disegnato dal background, i giochi della sei corde si trovano a proprio agio in viaggi solitari all’interno della partitura. L’ottimo outro anticipa Around me, senza molti dubbi, annoverabile tra le tra le più riuscite. La linea vocale dà il meglio di sé in questa impalcatura cupa, appoggiandosi in maniera calda ad un impronta sintetica dalla sottolineata visione prog. Il cambio direzionale della sua seconda parte ci porta poi, senza nessun ragionamento equilibrato, in un territorio Moby, da cui si esce con (Im)patience. Infatti, proprio quest’ultima definisce un ricalco new wave la cui cupezza espressiva ci rimanda ad un dark che strizza l’occhio alla prima generazione Depeche Mode.

Se poi Budavari, nella sua forma di interludio sonoro, si propone di raccontare un passaggio rituale, con Petrolio ci si ritrova in apnea sonora tra sampler incastonati su di una cadenza ritmica ed ipnotica, capace di far alienare l’ascoltatore alla realtà che lo circonda, in una sorta di trance espositivo. Da cui emergono sensazioni noise, chiaramente funzionali al brano ed al contempo anticipatori dello sperimentalismo oculato di Tegel, il cui scarno rumorismo latente emerge nella lettera di chiusura, tra martellanti sound e mescolanza di silenzi, al servizio di una metodologia psichedelica, la cui derivazione naturale ci porta verso una sorta di ambient atto chiude un interessante disco di nicchia.