Humanoira “Fedeli alla linea”, recensione

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Sono livornesi… Ma nessuno è perfetto.

Ho deciso di iniziare con ironia (di stampo ultras) questa recensione, perché ironia, sarcasmo genuinità sembrano essere fulcro esplosivo di questo nuovo album da gustare con lentezza osservativa.

Si chiamano Humanoira e si dicono fedeli alla linea; una linea che non è più quella radical punx dei CCCP, ma piuttosto una linea estetica, raccontata (anche) attraverso l’ottima grafica della work art. Infatti, proprio dall’analisi stilistica del tridimensionale ricreato da Valerio “Ryo” Girmenia sembra emergere il fagocitante e vacuo mondo dell’apparire, virus deformante, alimentato dalla pseudo socialità telematica, in cui l’inquietante omologazione trasversale rende soli e anonimi. Da qui il quartetto labronico riparte, esattamente dopo 7 anni di attesa, con un nuovo cosmo intercalato tra rock, psichedelia e accenni minimali.

Il disco, promosso dalla Seahorse Recording e distribuito da Audioglobe, offre l’ascoltatore un ottimo songwriting, i cui tempi narrativi ritrovano reminiscenze cantautoriali da gustare in piena quiete emotiva, proprio come dimostra la titletrack, minimale approccio sonoro, in cui il mondo e le modalità teatralizzate ricordano Freak Antoni e Rino Gaetano, oltre a venature ritmotribaliane. Un quadro eloquente e stranente che conduce senza indecisioni verso il battente rock di Son serio per burla, in cui Riccardo Vivaldi si conferma anima del project, qui splendidamente coadiuvato da una sezione ritmica ideale nel ridefinire i contorni di una narrazione arguta, che conquista solo dopo un attentivo ascolto.

Il viaggio proposto dal quartetto si impreziosisce poi con I miei passi, dall’attrattivo sapore seventies, e le intuizioni intercalate tra folk e valzer di …e allora senti cosa fò , in cui ritroviamo un’ardita mescolanza di Silvestri-Degregori.

L’album, intarsiato di sampler ed idee, inoltre, cela sensazioni mexican, adattate ad una epica narrazione romanzesca (Il re fasullo) spesso al servizio di un cantautorato prog, che si muove verso oriente con L’acne di Nejad, in cui sensazioni vicine al mondo di Manuel Agnelli ci conducono al gran finale: Lavorare con lentezza. La coverizzazione della traccia scritta da Enzo del Re, riportata in auge da Guido Chiesa, torna a vivere modulata e trasformata con l’intento di scarnificarne l’anima, qui modellata su di un loop ansiogeno ed intepretativo che non lascia di certo inermi.

Un disco coraggioso, alternativo e tutt’altro che diretto. Un’opera da gustare con attenzione, lentezza e capacità critica.