I Rudi “Nient’altro che routine”, recensione

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Sono senza chitarra, sono modernisti e cavalcano il mito della Golden Age. Non avversano le armonie semplici e dirette, tipiche del mondo Piper, senza però dimenticare le sfumature celate dietro a metodiche espressive che non disdegnano necessità di revival.

Promossi dalla Ammonia Records, I Rudi offrono un prodotto di qualità espressiva degna di menzione, proprio come il packaging cartonato (ahimè privo di booklet) e una cover art che riesce, con i suoi colori piatti e le sue linee istintive a raccontare l’anima vintage del terzetto, idealmente rappresentato dalla Lambretta di Marco Petrella e dalle scale di grigio dell’inlay.

A dare incipit al disco è un sampler che ritorna, come una sorta di trait d’union nel suo svolgersi, introduzione originale al ritmo vintage di Fiamboniglio, il cui animo beat emerge con naturalezza, sollevata dal fulcro essenziale della band: Gabriele Bernardi. Infatti, proprio il tastierista appare il motore estetico di un album in cui basso e batteria definiscono una sezione ritmica in grado di definire, attraverso rimandi brit, sonorità chiaramente mods. Così accade Nei confini (di un mondo che non ci appartiene) , traccia in cui filtri vocali e le ridondanze corali delimitano l’armonia immediata, giungendo a raccontare l’anima espressiva del power trio.

Il disco, godibile nella sua essenza modernista, giunge poi a sentori “Statuto” con l’ottima Routine, in cui le armonie vocali si appoggiano a sviluppi deliziosamente retrò, ospitando piccoli lampi direzionali ed impostazioni seventies. I cori Do woop ci accompagnano poi ad un falso finale, atto anticipatorio di Falsi eroi, la cui quattro corde dona una riuscita profondità ritmica, ideale per quello che fu il mondo del Titan Club.
Sulla medesima linea espressiva si pone anche Tre tizi, giocoso andamento raccontato dall’asprezza del drum set, armonizzato ad espressività che non snobbano curiosi rimandi impliciti ai primi Deep Purple.

A chiudere il debutto de I Rudi sono infine le arie deja ecu di Anna e il calmierante jazz di Roo baby che sembra volersi immergere nel curioso mondo del più spensierato Louis de Funes; infatti, nonostante l’enclave del sax, con questo brano strumentale ci si orienta verso le tipiche strutture OST d’oltralpe della metà degli anni 60, sciolti nel finale dal mondo revival di Melanie, riuscita coverizzazione del brano omonimo dei Prisoners.

Insomma, un disco che tra garage, parka ed influssi brit, giunge a dare risalto ad un’infinita serie di sfumature sonore.