J.Peter Shwalm “The beauty of disaster”, recensione

jps.jpg

Chi è Jan Peter Shwalm? Potrei banalizzare dicendo semplicemente: un musicista; ma nel mondo della Rarenoise Records la banalità non esiste. Shwalm, infatti, rappresenta uno dei più interessanti compositori contemporanei, poliedrica anima artistica dedita ad un visionario mondo che riesce, con naturalezza, ad accorpare un antico spirito classico con sperimentazioni e divergenze eteree, articolate e malinconiche, poste tra cadenze inattese, cut ups e irregolarità visionarie.
Infatti, questa nuova “bellezza del disastro”, raccoglie a sé idee veicolate in una riuscita sincrasi tra passato e futuro, narrata da abili strumentisti che accompagnano il musicista teutonico attraverso i confini della trasversalità. Un insieme di sensazioni emozionali, che sembrano volersi discostare (solo in parte) dalle pregresse collaborazioni, per condurre l’ascoltatore verso un immaginifico fuori dal comune.

IL disco, delicato e trasparente, ma a tratti tagliente e deflagrante, si apre con la riuscita e simbolica cover art, ideale nel chiudere una visuale rappresentativa delle 10 tracce, il cui apice sonoro si definisce sin dall’incipit preparatorio, atto iniziatico che va a sgelare le note pronte a popolare il disco. Sonorità avvolgenti ed inquiete la cui struttura si pone su di un mondo ideale raccontato da una trama esecutiva che volge lo sguardo verso una stasi orientaleggianti ( Himmelfahrt), sino a trascinarci verso il desertico gelo algido del grande nord, da cui emergono influenze post rock ( The beauty of disaster). Un’ambientazione che si lega all’uso ragionato di suoni, creando un a sorta di fil rouge in grado di continuare una narrazione lineare, proprio come in un romanzo i cui capitoli si intrecciano in maniera armonica.

Con Numbers become stories si va poi ad accrescere la sincrasi espressiva tra un uso metodico di reminiscenze classiche e una struttura sperimentale, in cui il pianoforte si incontra con una stranita anima altronica, almeno sino a Zirkeltrilogie , di certo una tra le tracce più interessanti del disco. Un risveglio espressivo che, tra silenzi, pause e note ardite, ci porta verso un impianto visionario ed allegorico. Suoni onirici e strutturati come una sorta di iper-realtà distorta ed eterea.

A chiudere il disco è infine il “Grand piano” di Christine Schutze e i deserti estesi di Endknall, effluvi di note filmiche che delineano i contorni di una profonda solitudine esistenziale, fulcro di un disco illudente, che si racconta attraverso partiture fluide, in cui i cambi agogici vivono con attentiva considerazione l’espressività descrittiva, ponendo un velo di melanconia sulla narrazione sonora.