La febbre del venerdì 13 “La febbre del venerdì 13”, recensione

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Ecco a voi La febbre del venerdì 13, riuscito progetto rock ideato da Andrea Zuccaro . Project che, a quanto sembra, nulla deve alla sincrasi fuori logica atta ad unire l’horrorifica visuale su Crystal Lake all’icona ultrapop di John Travolta.

Una realtà genuina e diretta che poco lascia al caso, ma che pare in grado di ridefinire interessanti cuciture armoniche coadiuvate da infezioni felici e riflessi emotivi.

Il disco, targato Irma Records e promosso da Macramè Trame Comunicative, forte di un rock inquinato, appare pronto a ridefinire gli schemi indie, proprio come dimostra la disarmonia pentagonale di un intro spigoloso ed alternative, pronto ad implodere sull’ espressività ridefinita da una sezione ritmica che qualcosa deve all’esterofilia.

L’anima pulsante del combo si raccoglie attorno a quei sentori indie che parlano italiano e ad un alt- aurea anni ’90, in cui la voce affronta stilemi tipici del genere, attraverso una narrazione a tratti ovattata, qui abbracciata ad una riuscita ridondanza espressiva.

I passaggi emozionali ed attenti provocano un acuirsi d’espressione, lasciando in overlay la musica e la calda linea vocale, (spesso) intesa come struttura secondaria, pronta a rimandare a sensazioni retrò (Messico). Il disco, curioso e convincente, mostra tra le sue note intuizioni Baustelliane, anche se ad incuriosire sono più che altro i rimandi velati ai Bastard Sons of Dionisio, emergenti da un curioso avvicinamento tra lo-fi e pop.

Il groove viene mantenuto a buoni livelli da brani come Tigre e Sfidi mai, ironica e divertiti easy track, dominata da una sei corde, che non disdegna talvolta intelaiature surf. Se poi con L.S.D.C (La sorte dei cantanti) i passaggi modellati sul movimento acustico tendono alla semplicità, con Il rosso si inizia un delizioso viaggio verso la Liverpool anni ‘60, pronto a proseguire sullo splendore accogliente di Veterano. Un’impostazione calda ed espressiva per voce e chitarra, ridefinita dalla sorprendente evanescenza conclusiva di Nevada, in cui striature prog chiudono un disco che, pur poco ispirato della sua cover-art, racchiude un metodo narrativa degno di attenzione.