La terza via

La terza via

Cecilia Sanchietti ci è già piaciuta molto col precedente album, Circle Time, sicché quando lo scrivente ha saputo del nuovo lavoro non ha perso un minuto, ha cercato Cecilia per poter ascoltare la novità, ha sentito nella voce di lei l’entusiasmo e la vitalità di chi crede in quel che fa ed in quel che ha appena fatto, l’ha salutata… e poi sì, qualche minuto l’ha perso, visto che queste parole escono in colpevole ritardo. Colpevole un po’ verso Cecilia, perché è brava e perché è “forte”, come una volta si diceva dei musicisti quando “brava” non rendeva abbastanza l’idea e suonava meno umanizzato; colpevole poi verso chi ci legge, perché dopo queste righe dovrete necessariamente andare a comprare il disco –se siete tuttora nel lato fisico della forza- o cambiare schermata e comprarlo/ascoltarlo online, e quindi avrete perso diverse settimane di ascolto. Recupererete, ne sono abbastanza sicuro.

Due parole lungo la tracklist ve le dico, ma anticipo una considerazione importante che in qualche modo attraversa i brani e li riunisce, e se vi è venuto in mente il filo per far collane con le perle va benissimo così: questo lavoro è un gioiellino che nel jazz moderno sta perfettamente a suo agio, unendo una compiutezza nitida ed organica ad una morbidezza fluida e calda ed accompagnandovi nell’ascolto come potrebbe fare un vino di quelli che non puntano alle stelle dorate dei premi ma a farsi bere, a raccontare nei sorsi, ad avvicinare chi sa goderseli.

E via, in questa musica trovate un po’ di quel che leggete sotto e un po’ di quel che ci metterete voi.
Which way, con una intro di pianoforte intensa ed evocativa, libera un tre quarti di atmosfere che saranno casa per chi ami Bill Evans, in una linea melodica pulito, vicina, tangibile.
Circus segue a chiarire che il jazz è viaggiare in musica ed apre con un carnoso sax ad improvvisare per poi farci entrare in una sorta di soft bop (che prima o poi qualcuno martellerà da qualche parte come classificazione ufficiale, perciò noi ci facciamo trovare già preparati) con basso elettrico ed un drumming sempre morbido ma determinato a dettare ritmi e tensioni.
Not in my name lascia spazio al gioco del trovarsi tra chi suona, con melodie e mood che nel loro fluido modificarsi chiedono musicisti sensibili a quel che c’è via via intorno, con un tema che torna sulle dolcezze del brano di apertura ma con spazi improvvisativi più larghi.
Shouting to a brick wall riprende invece per alcuni aspetti qualcosa di Circus restando comunque con un’attenzione solidamente cantabile sul piano armonico e melodico, ma interponendo il gusto di spezzate ritmiche che hanno la capacità di stare nel brano, senza artifici, divertendo gentilmente senza strappi (scritta così sembra Mogol, ma vedrete che…). Un equilibrio delicato, intanto, si manifesta all’ascolto e sembra consolidarsi come uno dei tratti della personalità di questo lavoro.
Sweet & bitter è una ballad in cui il piano è il protagonista dichiarato, un’evidenza nuova in un album che finora ha fatto del bilanciamento tra i ruoli uno dei suoi punti caratteristici. Il solo di basso elettrico ha una rotondità timbrica e melodica che lo rende compagno perfetto del racconto che il piano percorre per tutto il resto del brano, con la batteria che sa stare un passo indietro, presente e complice ma lieve.
Il cinque quarti di Run baby run è un’altra piccola magia di musicalità, in cui ancor più è limpida la personalità di un progetto che racconta come ritmo ed emozioni nel jazz possano coesistere in un fluire mai freddo, liscio ma privo di artifici, in cui gli strumenti si incontrano perché si vengono incontro.
Emerging land, in un certo senso più classica di altre nel lasciar andare chi ascolta lungo terre magari già emerse (ma non c’è banalità, come del resto in tutto il lavoro); è aperta, con atmosfere talvolta malinconiche ma luminose, e resta bene nel solco di un progetto che via via mostra senza urlare il proprio stile. In continuità va a suo modo Hang gliding, che prima di aprirsi alla parte improvvisativa assegna nuovamente al piano il racconto ritmico del brano.
The third way si presenta con un solo di basso diretto ed asciutto, da apprezzare possibilmente con un bel paio di diffusori o in cuffia, per poi tener su tempi e tensioni sonore ma ancora una volta con equilibrio e misura.
Innocence, una delle grandi melodie di Jarrett, chiude splendidamente un album che ha un pregio immediatamente avvertibile: ti fa venire voglia di ripetere subito l’ascolto.

Il suddetto e sottoscritto scrivente poteva inoltrarsi in ulteriori tecnicismi di dettaglio sui singoli brani, o sulla indiscutibile qualità di ciascuno dei musicisti, ma, difficile da dire in modo del tutto esplicativo, questo progetto sa funzionare anche perché la pur evidente capacità e soprattutto efficacia compositiva, le abilità esecutive, il calore con cui l’intero album è suonato, un’eleganza anche formale che però mai diventa maniera sono tutti punti molto positivi che però oltretutto vanno uniti a formare un risultato che scavalca i singoli aspetti. Durante tutta l’esperienza di camminare tra i brani vi troverete a passare sostanzialmente per il jazz, sì, ma la totale assenza di fatica d’ascolto e le molte possibilità di stupirvi ed emozionarvi con una non banale immediatezza vi faranno arrivare alla fine, secondo me, con sensazioni molto positive e forse col sorriso. E una musica che fa bene è, non c’è dubbio, musica bella.

Oltretutto -considerazione fuori moda- il lavoro è registrato davvero molto bene, per la gioia di chi apprezzi il grande valore aggiunto non solo razionale che questo aspetto ha nel vivere la bellezza di un ascolto.

Naturalmente consigliatissimo.