Luca Loizzi “Luca Loizzi”, recensione

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Luca Loizzi arriva dal mondo della parola, vive di essa e con essa, non solo grazie al suo mondo letterato, ma anche e soprattutto per merito di un animo musicale che tenta di trascinare l’ascoltatore nella sua poetica danzante, assestabile tra sensazioni retrò, folk e spezie cantautoriali. L’equilibrio tra poetica e note appare ben regolato da convincenti arrangiamenti che cercano, con alterne fortune, di non appoggiarsi sulla medesima linea, esplorando territori cari a Buscagliene, Gaber e Van der Sfroos, in un atteggiamento narrativo che si affaccia al quotidiano attraverso ironia pungente e sagagacia osservativa a tratti destabilizzata dal non sense, allineato a espressioni impavide e popolane.

Il disco d’esordio, edito da Tarock Records, esce dal bozzolo forte di una struttura minimale, in cui la voce e la chitarra appaiono in overlay sul background di tecnici approcci musicali, pronti ed abili a sviluppi diversificati, capaci di affiancare senza soluzione di continuità sonorità gipsy, jazz, blues, folk e swing. Un meltin pot acustico che avvicendata ritmi andanti a ballad dirette, per un digipack che convince molto poco nel suo tentativo di riprodurre una tela di Dario Agrimi.

I nove brani del full lenght si accompagnano ad booklet interessante, in cui i testi sono riportati in pearl jam style, attraverso l’uso calligrafico dell’inchiostro, che si alterna metaforicamente alle note dei suoi protagonisti, per un progetto che trasuda devozione e salutare entusiasmo creativo.

Ad aprire le danze è il singolo Quando meno te lo aspetti, brano folle e disorientante in cui due chitarre si abbracciano nel sapore del cantautorato rock folk, tra divertenti ed allegri vocalizzi in cui ben figura il clapping hand e l’arrangiamento bandistico, da cui emerge la tromba di Giuliano Di Cesare. Semplici accordi da cui esce l’anima del banjo di Adriano Sofo, che aggiunge spensierata emotività e buon armonizzazione sullo stile di Tutti quelli , traccia in cui il disco subisce una virata jazz swing. Le sensazioni anni ’20 si avvinghiano con audacia ad una traccia “senza fiato”, tirata ed in equilibrio perfetto, mentre la tromba, utilizzata con una sordina wah wah, si affianca poi alla non sempre funzionale voce di Serena Fortebraccio.

Se poi con il vestito funky di Che fastidio i ricercati giochi lessicali potrebbero risultare blandamente forzosi, di miglior impatto sembrano essere il vintage rock di Taglio la corda e il minimal swing di Pillole, capace di tenere il passo di Via Ripamonti e delle sue spezie Bandabardò.

Un disco che riesce ad andare oltre alle aspettative, grazie ad una musica che arriva dal cuore e non dalla razionalità, grazie ad un approccio poetico che, pur attraversando momenti non troppo lucidi, offre un disco pensato (bene) attraverso plausibili metafore, regine di un approccio linguistico convincente.