Mano-Vega, Nel mezzo, recensione

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Era il 1998 quando l’impulso di una mente inquieta diede alla luce l’interessante progetto Mano-Vega, creatura vivificata da Valerio D’anna, Giovanni Macioce, Lorenzo Mantova e Andrea Scala. L’ensamble musicale, forte di un passato recente ricco di live, ha finalmente oggi dato alle stampe il proprio debut “Nel mezzo”, la cui gestazione è frutto di oltre sei anni di lavoro.

Questo diluito lasso di tempo ha permesso una cura nobile del disco, non solo dedicata alle partiture, ma al contempo ad un songwriting dotto ed erudito. Se a questa dedizione aggiungiamo l’aspetto grafico estetico che pervade il digipack, possiamo considerare che chi ben comincia risulta proprio “Nel mezzo” dell’opera.

Il disco intervalla sapientemente Alternative rock con l’altronica, senza dimenticare né l’art-avant rock prog, né tanto meno il progressive, alquanto presente nelle sensazioni infuse dalle nove tracce registrate al Domus Vega studio, legato alla neonata Domus Records inscindibilmente congiunto al combo laziale.

L’atteso debutto ha inizio con un’“Ondanomala”, destabilizzante sin dal principio, tra rock psichedelico ed alternative, narrata da una voce filtrata, abile nell’inseguire un distillato soft noise accortamente mescolato ad un indie, il cui groove ricorda la seconda generazione Muse.

“Nel mezzo”, con i suoi capitoli, racconta un’opera articolata che, come accade con il brano d’overture, riesce ad alternare staticità Coleridgiana ad improvvisi ed inattesi picchi, veloci e ficcanti. Nei quasi otto minuti otto di questa “Ondanomala” i Mano-Vega portano avanti una buona dose di presunzione, costantemente affiancata da un dosaggio di idee, che rasentano l’acume compositivo, definendo così uno e più brani labirintici, complessi contenitori noise, space, free e prog, intesi come compartimenti spinti in una terapia d’urto contro una forte connotazione elettronica.

La metodologia esecutiva della band si palesa come innovativa ed autentica, assestata tra tonalità sentite e sussurrii laconici, che per certi versi ci possono portare alla mente Federico Ciappini e la sua arte fonetica. “La prova del vento” prima e “Sinestesia” poi, portano in dote un controllato rumorismo che matura in proto soft noise di stampo nordico, in un viaggio anestetizzato da lievi sussurri e fragili ossature altroniche. Un mondo narrato tra figure retoriche valenti, misurate attorno ad un songwrtiting post futurista e metaforico, tanto cupo quanto intratestuale.

I brani proposti dal quartetto tessono estese matasse temporali nel tentitivo di fagocitare l’ascoltatore in una realtà filosofeggiante, come accade in “Sfere”, traccia nutrita di aulica riflessione. Le note si intrecciano e si inseguono in un eterno divenire, attraverso sonorità liminari all’ultimo Carpenter. I sussurri, vero e proprio elemento sonico aggiunto, incrementano e stimolano imprevisti cambi di linea, come a voler ricreare al caducità umana, tesa all’eterno divenire.

Un album alquanto difficoltoso da comprendere appieno, una sfida non facile da affrontare, non tanto per l’impressionante creatività musicali senza guinzaglio, quanto per una narrazione lirica al di fuori del routinario.

Il neo più evindente di un lavoro di per sé adeguato ai tempi, potrebbe essere l’eccessiva diluizione di alcune tracce, ostacolo ad un ascolto attentivo, che necessita di un impegno monotasking similmente alle opere Heimatiane di Edgar Reitz, che coinvolge con la sua narrazione disciolta nei lunghi passi di una sceneggiatura che non ammette però forme di distrazione.

01. Ondanomala
02. La Prova Del Vuoto
03. Nel Mezzo
04. Sfere
05. Sinestesia
06. Dal Rosso Al Blu
07. Opus
08. Magnum Opus
09. Dal Nero Al Bianco