Mechanical god creation “Artifact of Annihilation”, recensione

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Sono trascorsi poco meno di tre anni da Cell XIII e da allora i MGC hanno mutato pelle, arrivando a definire una miglior tecnica esecutiva ed artistica, complice il sofferto cambio di line up che ha anticipato l’uscita di questa nuova fatica. Artifact of Annihilation, promosso dalla Whormholedeath sembra, infatti, voler convogliare una nuova cognizione di causa, attraverso una sensazione che a tratti trascende nel pretenzioso, rimanendo però ben ancorata alle idee che si propone. Una nuova veste, impreziosita dalla splendida cover art di Colin Marks, capace di definire l’essenza di una band carica di violenza melodica, segni ricercati e sfumature cromatiche.

Artifact of Annihilation da un lato sembra rappresentare un mezzo con cui avvicinare nuovi target, (anche grazie al tecnicismo vocale di Lucy), dall’altro pare allontanare coloro che, masticando Possessed ed Obituary, paiono più avvezzi a colori dalla grana più densa. Infatti le urla sofferenti e narrative della frontgirl sono a tratti edulcorate da una mediazione sonora che si discosta dall’old school, ma non per questo meno incisiva. Ad aprire il concept album è Piramidion, traccia introduttiva e filmica che racconta il vociare del nostro mondo, qui aggredito brutalmente da un’orrorifica invasione che ha il suo incipit nella titletrack. Sin dal primo ascolto le intelaiature aperte offrono una visione moderna della musicalità heavy, senza dimenticare stilemi armonici e spezie sinfoniche applicate alla concettualità della de-costruzione di un oscuro futuro. La narrazione si fa poi più disorientante ed onirica con Illusions, il cui tracciato si presenta impreziosito da un accorto drum set e da intelligenti cambi direzionali. Il disco sembra stabilizzarsi su di un nu-level narrativo, in cui la brutalizzazione e la meccanizzazione della natura si manifestano come fulcro espositivo in Cult of the machines, da cui si ergono sensazioni di inquietudine e arrendevole fanta-futurismo. Le speranze perdute sono costrette poi ad osservare l’incedere impietoso del marciare alieno, mentre l’insieme di interessanti intuizioni artistiche ben definiscono la musicalità di brani come Ocean of time e Terror in the air, di certo superiori all’interludio sonoro Lullaby for the moder age, atto incompiuto e per certi versi stonato rispetto a tracce come Shadow falling, in cui un curioso call and response ci porta oltre ogni cliché del genere.

Un disco ben strutturato attraverso la sua cupezza narrativa e la sua sagacia espositiva che, pur mancando di spiccati picchi armonici, riesce a raccontare al meglio idee che solo a tratti avrebbero meritato una più coraggiosa armonizzazione.