Metalic Taste of blood “Doctoring the dead”, recensione

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L’unico errore che potreste fare…è non ascoltare questa piccola perla underground.

Ho amato i Metallic taste of blood sin dal primo ascolto del loro esordio; pertanto mi sembrava naturale accettare la proposta di recensire questo nuovo Doctoring the dead. Lo ho accolto a scatola chiusa, senza nessun pre-ascolto, perché sapevo (con arrogante certezza) che l’arte espositiva di Eraldo Bernocchi non avrebbe certo deluso le (mie) attese.

Infatti, ancora una volta, il mutante combo artistico si mostra al di sopra di ogni espressione banalizzante, ponendosi attorno ad una vibrante ascesa verso un’inevitabile ruggine. Un’inquieta dinamicità che trova il suo apice espressivo proprio nell’incipit di Ipsissimus, antro distorto di questa nuova creatura Rarenoise records.

Proprio i respiri distopici dell’overture, grezzamente mutuati da impronte new wave, ci indicano la via finita e ridefinita dai grigiori sonori dominanti dal basso di Colin Edwin. La struttura dominante e acusticamente profonda si addensa prima del fade out verso l’animo calmierante di Pashupati, secondo atto (passatemi il termine) facile ed immediato che, nonostante il drum set minimale, racchiude un improvviso cromatismo stoner, in cui perdersi per avvolgersi alle nebbie estese di un principio strumentale che evolve cauto, tra virate distorte e ritmi d’appoggio, in grado di confluire su spezie dub. Da qui si riparte per l’oscurità battente di Synthetic tongue e l’ipnotica Blind voyeur, la cui anima vintage va a cucirsi ad uno straordinario scheletro chitarristico, ammaliato dall’arte sonora di Bernocchi, qui in grado di ridimensionare lontane sensazioni GSYBE, verso contenitori industrial.

Le pieghe psichedeliche ci invitano poi verso rifiniture sintetiche, poco prima di immergersi tra le ossa di Days of bones, stilistica e per certi versi desertica traccia, posta al limite di un ambient che confluisce in maniera sorprendentemente naturale verso distorsioni rumoristiche, non troppo slegate dall’impronta Karma to burn.

L’album, straordinariamente genuino e diretto, proprio come in un ossimoro danzante ed artificiale, asseconda l’idea divergente di un duplice itinerario, mediante il quale la corruttibilità sonora trova, se ancora ce ne fosse necessità, la propria conferma nelle desolanti espressioni di Murder burger, i cui stilemi prog restituiscono una visionaria arte filmica vicina al modus operandi degli anni’80.

Insomma un percorso ardito, espressivo e senza tempo, abile nel guidare l’attento osservatore in un aggrovigliarsi espressivo di note libere, intercalate tra free e avant.