Michael – MIchael Jackson. di Marco Restelli

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Quando si parla di un album, dal punto di vista concettuale mi vengono in mente due modelli opposti che idealmente potremmo collocare agli antipodi.

Da una parte c’è il c.d. “concept album”, in cui ogni singola canzone è in realtà parte di un tutto e che difficilmente acquisirebbe il medesimo significato lontano dal resto (come potrebbe essere una scena rispetto all’intero film). Dall’altra c’è la “compilation”, in cui ogni singolo pezzo ha una sua storia, una sua identità ed è unito agli altri da un flebile legame (come ad esempio l’essere stato semplicemente scritto o cantato dallo stesso autore).

“Michael”, vista la storia stessa che lo ha dato alla luce, si colloca, purtroppo, molto più vicino al secondo modello piuttosto che al primo ed è forse per questo che necessita di qualche spiegazione preliminare in più rispetto ad altri dischi.

Infatti, chiunque decidesse di acquistarlo (così come i suoi futuri 9 “fratelli” che da contratto seguiranno nei prossimi 7 anni) deve essere ben coscio che non si tratta di un album “di Michael Jackson” in senso stretto, ma semplicemente “con Michael Jackson” , sebbene qualcuno potrebbe obiettare che, in realtà, la maggior parte delle canzoni le ha scritte lui. Al riguardo ritengo che non bisogna essere dei discografici per sapere che una “melodia”, bella o brutta che sia, acquisisce commercialmente una propria vita autonoma solo quando qualcuno (un produttore) ci mette il proprio gusto, estro, esperienza, in una parola il “talento”, per renderla finalmente una “canzone”.

A ben vedere, in tutti i dischi pubblicati sin qui (dall’esordiente “Off the wall” fino a “Invincible”) la mano dell’artista (che, diciamolo, resta uno dei più grandi geni della storia della musica, paragonabile come impatto a gente del calibro di Presley, McCartney o Dylan) è sempre stata evidente, vista la sua maniacale attenzione per i dettagli, che spesso ha comportato ritardi perfino di anni nell’uscita dei succitati album.
In “Michael” questa mano fatata, invece, manca; tanto che risulta a colpo d’occhio (o d’orecchio se preferite) come i vari Akon & C., pur avendo avuto praticamente carta bianca e fatto del loro meglio per realizzare qualcosa che Jako avrebbe apprezzato, non siano riusciti ad arginare il problema di fondo: in studio la sua voce c’era, lui no.

E così, ritornando all’introduzione, il prevalente effetto di insieme è più simile a quello del mosaico che a quello del quadro, fatto cioè di pezzi ben distinti e con la propria fisionomia, tenuti insieme un (bel) po’ artificialmente, là dove – al contrario – un suo album presentava spesso una omogeneità stilistica ben riconoscibile.

Viste le (lunghe) premesse, quindi, il raccontare le canzoni di questo disco diventa più una “operazione chirurgica” volta ad analizzare le caratteristiche del singolo pezzo che una descrizione degli elementi che armonicamente compongono un’opera artistica. A cominciare dal singolo di questi giorni natalizi, “Hold my hand”, così marcatamente Akoniano nel suono (e di converso così poco Jakcsoniano) da far addirittura dubitare alcuni (a mio avviso, tra l’altro, ingiustificatamente) della stessa autenticità della voce dell’artista. Nel caso di specie siamo di fronte al classico tormentone radiofonico, melodicamente accattivante per carità, ma molto simile al 90% delle canzoni R&B che in questo momento impazzano negli USA (grazie a gente come Ne-Yo ed i suoi cloni). Con questo non vogliamo certo fare la parte dei fan che si strappano le vesti per la lesa maestà del proprio idolo, ma è evidente che basta riascoltare alcuni vecchi singoli apripista, come Rock my world (da Invincible) o Black or white (da Dangerous) per capire che siamo decisamente su altri livelli.

Gli fa da contraltare (questa volta in positivo) la dolcissima e finale lullaby, “Much too soon” , risalente nientemeno che ai tempi di Thriller (nel quale fece fatica a trovare spazio) e che, essendo nata sotto il controllo totale dell’autore non dà quell’effetto di “manipolazione genetica” come il resto dell’album. L’armonica che si aggiunge all’orchestra nell’ultima parte ricorda nello stile il suo vecchio amico Stevie Wonder, che forse avrebbe fatto volentieri parte del progetto, visto il legame stretto con l’artista sin dagli esordi solisti (sua la mitica “Can’t help it”).

In mezzo ai due pilastri di cui sopra altre due canzoni brillano maggiormente e ci ricordano il Michael dei bei tempi. La prima è “(I like) the way you love me” che, ancorché risulti oggettivamente iperprodotta, cioè eccessivamente stratificata e caricata di suoni e strumenti, lascia comunque un piacevole senso di spensieratezza che certamente mi (o forse “vi”) porterà a rimetterla su a breve.

L’altra è “I can’t make it (another day), che sulla scia di Beat it (Eddie Van Halen), Dirty Diane (Steve Stevens) e Give in to me (Slash) è stata affidata alle abili mani del marpione di turno, Lenny Kravitz, per forgiarne l’immancabile rock song dell’album. Risultato raggiunto positivamente, nonostante i suoni elettronici di fondo (già usati da Kravitz nel suo “5”) che, come una firma indelebile, rendono troppo evidenti le mani del produttore.

Per concludere questa mia recensione voglio solo puntualizzare che Michael non è affatto un brutto disco, purché lo si ascolti senza troppe ambizioni. Chi cercasse, cioè, un nuovo Thriller o Bad…..ne stia ben alla larga. Chi invece cerca solo di ascoltare 10 nuove (buone) canzoni cantate da Jackson corra subito a comprarlo per sè o magari per regalarlo a qualche amico che lo attendeva da (diversi) anni.