Miss Massive Snowflake “Like a Book”, recensione

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Siamo arrivati all’atto terzo della commedia realista narrata dal talentuoso songwriter Shane de Leon e dei suoi Miss Massive Snowflake, arrivati alla chiusura di questo nuovo Like a book, disco che si nutre prettamente di Pop alternativo. Una concettualità che per molti potrebbe apparire uno stonato ossimoro, ma solo acoltando le dieci tracce di questo “libro” potrete rendervi conto come l’anima popular della band si mescoli senza scandali a rumorismo, psichedelia, jazz, free e post80. Un insieme energico di note crude e testi surreali, rafforzati dal carisma espressivo del frontman, abile nel districarsi in labirintici percorsi sonori in cui ci si perde per brevi storie che bruciano la loro strada in poco più di mezzora, periodo intenso in cui l’arte di Jeanne Kennedy Crosby, Andy Brown e lo Squarcicatrice Jacopo Andreini aprono il libro d’artista su cui si basa la bellisima art work di Starbage hands, già presenti nei vecchi dischi dei Rolleball.

Il sapore d’oltreoceano che trapela dal disco si unisce in maniera naturale a riff vintage e sensazioni di fertile retroterra cultural-musicale, da cui decollano partiture dedide al groove naturale e diretto, ma tutt’altro che lineare. Il full lenght offre, infatti, una sensazione cromatica di poliedricità, che ci fagocita in un mondo intossicato di buon rock, inteso nella sua più ampia e libera concezzione di base.

Esempio palese di questo approccio è proprio l’introduttiva Candlestick Nails. La traccia, caratterizzata da un andamento orecchiabile da rock minimale, appare piacevolmente andante verso una meccanicizzazione definita da un utilizzo accorto di drumming, che solo a tratti sembra ricordare alcuni spazi artistici di Ian Paice. Un’amalgama musicale che si unisce all’utilizzo scarno della chitarra e alla voce dinoccolata e volutamente scomposta.

I molti vestiti indossati dalla band si affiancano poi nella melanconia intimista e genuina di Goldsworthy, che come accade in molte tracce, evita arrangiamenti troppo complessi e forzati. Il naturale andamento dei suoni, si rimodella su di sè, in una coraggiosa razionalizzazzione del mondo raccontato. Grazie a questo inusuale approccio la vocalità narrativa fuoriesce dalle linee musicali, per raggiungere una buona verve recitativa, che si appoggia su di un outro alt-pop tra corde tirate, canti e controcampi.

Se poi con il buon riff di Oh, the Pageantry e la semplicità di The Forest si intraprendono viaggi agevolati, con le introduttive note dell’ipnotico basso, l’ascoltatore viene fagocitato dalle ridonanti sonorità della bowiana Yupanqui, che grazie a space noise vintage e stranite strofe, regala alla doppia vocalità un canto a due ben distribuito, come accade con Uneasy town. Attraverso quest’ultima ci si ritrova nella psiche del racconto che, per certi versi, può ricordare alcuni spazi compositivi di Waters, nella dua disturbante esplosione sonora, lanciata come un sasso nel lago, con il suo esecutive retrò che ben si distanzia dal rock di Early Onset e alla poco convincente Andreini. Di tutt’altra fattura appare poi la perfetta anima eterea di The doctor, the thief and the post versus Confetti, che con il suo delizioso rumorismo diluito, definisce al meglio un disco che potrebbe accontentare chi si nutre di sonorità alternative, ma anche chi vive di armonie. Infatti il combo promosso dalla Wallace, si propone di ridisegnare appunti musicali di qualità, misurando energie e idee, senza mai valicare la linea di non ritorno, che per molti potrebbe rappresentare un naturale allontanamento.