Nacom “Crawling human souls”, recensione

nacom.jpg

Now i am become death. The destroyer of wordls

Un mondo in scala di grigio, affossato nel delirante ego umano, qui ferito da oscurità inesplorata e dalla follia sociale, in cui striscianti anime perdute sembrano intrappolate in un non mondo cripto reale. Da questo non luogo arrivano i Nacom, sestetto italiano votato ad una forma melodica di Death metal, ispirato in maniera chiara e definita a Dark Tranquillity ed In Flames.

La band, attiva ormai da due lustri, sembra voler convogliare le proprie intuizioni ancestrali verso un futurismo immobile e claustrofobico, arrivando ad una fusione di generi, che ben soppesa l’ossimoro filosofico che sta alla base della loro concettualità espressa, che, a mio modesto avviso, avrebbe avuto una maggiore efficacia se epurato proprio della parte più melodica.

I labirinti cementificati definiti da Riccardo Giampieri, sembrano snodarsi attraverso una tracklist lineare e diretta, le cui fondamenta sono da ritrovare nelle gutturalità espressive di Corinaldesi, bravo a dare risalto al riuscito incipit Alone. Passaggi brevi, rudi e definiti attorno ad un convincente blasting coraggiosamente inquinato da aperture sinfoniche, che palesano l’anima post apocalittica della lirica, tra Dimmu borgir ed heavy prog.

Il viaggio tra le nebbie oscure dei Nacom prosegue poi con le voci illusoriamente festanti di The curse, travolte dal terrore emozionale, tra spazi metaforizzati dall’incessante battere di Alessandro Recchia, che, con i suoi movimenti, trasferisce sensazioni death verso meandri più oscuri.

Tra le tracce più interessanti possiamo annoverare The traitor, in cui i riusciti passaggi stilistici modulano direzioni da manuale. Le tastiere, ben inserite nel contesto narrativo, risultano gli elementi trainanti di un’angoscia inconscia, bilanciata da giochi di balance acustico.

Sulla medesima linea ritroviamo In the night la cui acqua putrida implode nel riff iniziatico intarsiato da sussurri e piani differenziati della linea vocale.

Se poi brani come Nothing inside non sembrano raggiungere i propri obiettivi, con il percorso orientale di Mystical temple of pain l’impatto sonoro getta l’attenzione su di un curioso crocevia espressivo, ben calibrato tra melodia e tradizione, proprio come accade nel più classico binomio climax-anticlimax di Echos of void, il cui scioglimento terminale definisce un ulteriore apporto emozionale ad un disco tecnico ed interessante.