Nadsat “Crudo”, recensione

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Quando si osserva un dipinto, una scultura o una qualsiasi opera d’arte, se sospinti da curiosità e senso interpretativo, spesso ci si ritrova a modulare la propria idea raccogliendo dettagli dall’opera stessa. Basti pensare alle recondite e celate allegorie di Salvador Dalì, dalla quale arte, da sempre, sono fiorite metafore annodate ad un’abilità creativa senza eguali.

Esaminando l’artwork di Crudo, nuova release dei Nadsat, è probabile che chi, come me, si perde nelle impercettibili sfumature dell’arte visiva, vada a soffermarsi sulla composizione estetica di un leone piangente, che dona interrogativi al servizio di un disco promosso dalla sinergia di Toten Schwan/Upupa Produzioni/Vollmer/Oh Dear!/E’ Un Brutto Posto Dove Vivere/Koe Low Profile.

Il disco “semplice e complicato”, proprio come la cover art di Inserirefloppino, apre, sin dal primo ascolto, ad un’opera libera da confini semantici. Un disco diretto, in cui il lato emozionale delle sue note divora la parte concettuale che sembra volutamente lasciata in un vacante vuoto.
Note spigolose, dissonanti e free, intese come libere ed entropiche, pronte a dare forma grezza a otto tracce in cui batteria e chitarra identificano le due facce di una moneta da collezionare.

Così… la band, dopo un esordio in extended played, giunge a completare il proprio sentiero, proprio come dimostra l’impronta ancestrale di Mesozoic, reiterato, inquieto ed oscuro anthem.

L’album, ricco di cambi direttivi e rivisitazioni lontane dalla chimica concettuale della “forma canzone”, allinea silenzi e stop and go, diretti a rimodulare profondità emotive in cui perdersi ad occhi serrati. Il disco del duo felsineo, infatti, non sembra voler tralasciare nulla di intentato. Si parte da sensazioni depressive doom, giungendo a raccogliere poi istinti primitivi che conducono alla schizofrenia analitica di Carcharodon e ai sentori prog celati dietro alla partitura di Umhlaba, con cui si riparte verso un viaggio narrativo minimale pronto a dare corpo a questo Crudo.

Tra i migliori apici sonori troviamo infine l’approccio electro-rumoristico di Sivik, in cui l’aridità tribale, ideale nell’intento di volgere verso un linguaggio filmico irreale, appare pronto a mostrare il lato freejazzcore di Droid, trama dai livelli di lettura diversificati e destrutturati, di certo in perfetto equilibrio tra noise e armonie, esattamente come il disco nel suo complesso.