Ofeliadorme “Bloodroot”, recensione

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Vi è mai capitato di chiedervi: Come è possibile?

Beh…ascoltando il nuovo disco degli Ofeliadorme, proprio questa mattina, mi sono ritrovato a domandarmi: ma come è possibile? Come può essere capitato?

Guardando l’infosheet mi sono chiesto quali strani eventi mi avessero tenuto lontano da questa band (almeno fino ad oggi). Ma di certo non ho perduto tempo nel concedermi alibi, decidendo di inoltrarmi a piedi uniti nel mondo del quartetto bolognese. Una realtà parallela, da cui trapela sognante raffinatezza e ponderata eleganza, aspetti fondanti della nuova release intitolata Bloodroot.

Nove tracce dalle atmosfere intimamente costruite attorno allo splendore vocale di Francesca Bono, a completo agio in quel territorio indie assestabile tra Agnes Obel e Pj Harvey. La band, forte del buon impatto sonoro avuto con l’EP Sometimes it’s better to wait, continua ad ottenere buoni consensi anche oltre confine, complice un perfetto approccio linguistico che ritroviamo in questo full lenght di debutto, colmatore del vuoto espressivo lasciato dalle esperienze con Howie B e Bike.

Un approccio ponderato e maturo al servizio della The Prisoner Records, pronta per la promozione di un disco metaforico sin dal suo titolo, in cui la Sanguinaria Canadiensis, rispecchia l’eleganza sonora dei Ofeliadorme.
Un disco pacato nei suoi movimenti climatici, atti a definire i cambi direzionali posti al servizio di un estratto ammaliante ben calibrato su spezie dream pop. Un delizioso Hope Sandeval style che si unisce sensazioni d’oltre oceano, da cui emergono le note Sparlklehorse di Last Day first day, introdotta da un gentile battito cardiaco. La dolcezza della sei corde e l’ammaliante vocalità definisce (sin dall’operner) un accorto tracciato che, pur contando di piccoli cambi, si anima tra le pieghe di buona incarnazione lo-fi, per concludersi in modo stranito verso un inatteso soft noise.

Se poi con Bloodroot l’ intenzionalità rock rende meno accattivanti i cicli sonori è con lo scheletro minimal dark di Pumpkin girl e con il ritmo viaggiante di Predictable che l’ascoltatore si ritrova nel magico onirismo, tracciato sonoro in cui l’alternarsi ossessivo di poche note si appoggia al dolce suono delle dita sulle corde. Da qui si riparte per il sentiero di Ulysses, i cui intenti scardinano la genuinità oculata delle sonorità, alquanto lontane dai ritmi proto post di Otherwise e dalle spigolose percussioni di Brussels, micce di un pensiero artistico che non potrà che migliorare con l’inevitabile maturazione.