Pale Green Ghosts – John Grant – Recensione cd

cover cd

Ci sono artisti che nascono con dei doni speciali. Alcuni sono fantastici strumentisti, altri hanno la fortuna di azzeccare sempre la melodia giusta, quando si mettono a scrivere canzoni, mentre ad altri ancora il Creatore ha donato una voce unica.

John Grant, interessante cantautore americano, porta nella faretra certamente almeno le ultime due di queste frecce al suo arco e dopo quel magico esordio solista di tre anni fa (dopo una manciata di dischi con il gruppo dei Czars) che fu “Queen of Denemark” (che consiglio, a scatola chiusa), presenta oggi questo suo nuovo lavoro cambiando molte delle carte in tavola che a livello musicale aveva sempre giocato sino ad ora.
Infatti, pur non mancando in “Pale green ghosts” alcuni quasi pezzi privi di elettronica, si capisce ben presto che l’orientamento va verso arrangiamenti che mettono i campionamenti e le tastiere in primo piano così da rendere l’album, in un certo senso, piuttosto sperimentale.

Già dalle prime note del singolo apripista, che porta il nome del disco, Grant crea un’affascinante atmosfera dark, alla Depeche Mode (se vogliamo…), che porta l’ascoltatore letteralmente a viaggiare con la mente. Il pezzo è praticamente privo di refrain, ma nonostante questo si lascia respirare, toccando alcune corde del cuore che da tempo non venivano neanche sfiorate. Colpito/affondato.

Sembra di fare un tuffo negli anni 80 quando parte il ritmo sintetico di “Black belt”, un pezzo da ascoltare a tutto volume con i bassi belli pompati e, a dire il vero, un po’ scioccante per chi era abituato alle sue melodie alla David Sylvian primo periodo. Ma non ci sarà da aspettare molto per trovare pane per i propri denti, perché il terzo brano “GMF” (acronimo di Greatest Mother Fucker) ci riporta subito verso i sentieri già noti del succitato disco precedente. Musica voce e chitarra, con arrangiamenti più pop rock (le keys infatti restano relegate ad un ruolo minore) al servizio di una melodia da sogno che mi lascia serenamente affermare che si tratta di una delle sue canzoni più belle di sempre e, in generale, la più bella in assoluto che ho ascoltato in questo 2013. Nei cori c’è anche una certa Sinead o’ Connor che, quanto a doti vocali, non è seconda a nessuna. Spettacolare.

Nel corso del disco, come già anticipato, l’approccio più tradizionale anche se numericamente minoritario non sarà del tutto un caso isolato e così anche l’acustica “It doesn’t matter to him” e la più andante e (udite udite) spensierata “I hate this town”, dominata dal piano di John, si beccano a mani basse rispettivamente la medaglia d’argento e di bronzo. Fantastiche.

Fra i pezzi elettronici, invece, le mie personalissime preferite sono la ballata “You don’t have to”, inno all’abbandono di ogni comportamento ipocrita in un rapporto d’amore, e la midetmpo “Ernest Borgnine” dove Grant utilizza dei filtri vocali che insieme ad un notevole ed inedito sax contribuiscono a rendere il brano molto estroso. Da riascoltare.

Dulcis in fundo, l’orchestrale, intensa e dilatata “Glacier” (di oltre 7 minuti) chiude alla grande un disco che segna un ulteriore passo avanti nella già più che promettente carriera di questo artista di livello e decisamente superiore alla media.