Pearl Jam

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Sono sufficienti i primi 48 secondi del disco per realizzare che i Pearl Jam sono tornati; non il vuoto e sperso gruppo di “Riot act”, forse il peggior album della loro decennale carriera, e neppure quelli di “Ten”, inarrivabile perché figlio di un’epoca ormai chiusa. A tornare sono i Pearl Jam di oggi, band prestigiosa, senza sbavature, precisa e cinica, fiore di un’America violenta, che Vedder e compagni non si sentono di appoggiare in molte delle sue scelte, come dimostra la campagna musicale del “Vote for change” di qualche tempo addietro. Il controverso sentimento si sviluppa attraverso questo omonimo ed “incazzato” disco, che lascia ben poco spazio alla dolcezza sprigionata da “Yield”, oppure alla riflessiva voce di “Vitalogy”. L’aggressività dell’ottava opera da studio della band di Seattle, si è concretizzata immediatamente attraverso il singolo “World wide suicide”, distribuito in free download attraverso l’official site del gruppo, lanciando il nuovo prodotto verso le vette delle charts di tutto il mondo.

Il rock tirato e furente, mostra ancora una volta le immense abilità di Eddie, che emergono con la naturalezza dei vocalismi perfetti e con le curate liriche, composte con una vecchia macchina da scrivere. Quest’irruenza trova poi linfa vitale nella folgorante “Comatose”, che con i suoi veementi due minuti, porta all’incontro il punk style della west coast, con il classic rock degli Who, veri e propri mentori di Gossard e soci. Sulla stessa linea si ritrova “Severed hand” con i suoi riff stoner di buon impatto e per certi versi anche con “Marker in the sand”, che sembra voler aprire uno spiraglio verso una quiete che si mostra però fittizia, interpretata dall’alternanza di dolcezza e potenza che scaturisce dal cantato del front man.

Sin dai primordi però, i Pearl Jam ci hanno abituato ad accogliere ballad di stile, basti pensare a “Black” e “ Release” dell’esordio, oppure alle più recenti “Low Light”, “Off she goes” e ”Thin air”. Appare quindi naturale aspettarci il suono pizzicato e morbido di “Parachutes”, che ha già le fattezze di un classico. Tutto appare semplice per Gossard e McReady, che tra una track e l’altra continuano a dialogare amabilmente con le note, come accade ad esempio in “Big Wave” che porta con se la stessa carica adrenalinica di “Do the evolution”, oppure nella sorprendente “Come back”, che rende incantevole il lato b del disco. La traccia numero 12, infatti, permette alla band di cimentarsi per la prima volta in un lavoro da studio, con il soul, ripercorrendo l’elaborazione iniziata tempo addietro con “Sittin on the dock of the bay” di Otis Redding, la cui foggia sembra rivivere attraverso questa nuova “Come back”.

Quindi, nonostante alcune parti non del tutto convincenti come la bonsai “Wasted reprise” e nonostante un Matt Cameron che questa volta non riesce a lasciare il segno, “Pearl Jam” è un disco da comprare, per godere di vero e coinvolgente grunge rock e per dimenticare il flop di “Riot act”…in attesa di un european tour che si preannuncia memorabile.