“Something From Nothing:The art of rap” un film di Ice-T

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L’hip hop non ha inventato niente, ma ha reinventato tutto

Something from nothing: The art of rap, edito da Feltrinelli per la collana Real Cinema, rappresenta una sorprendente e diretta voce narrante, legata imprescindibilmente ad un vero e proprio substrato culturale chiamato Hip Hop. Un movimento armato di rabbia sociale, allitterazioni e fonosimbolismi in grado di dar voce a quell’America nera che, tra graffiti, breakdance e scratching, è riuscita a portare nel mainstream gli sguardi persi nel disagio e nelle difficoltà.
Proprio dall’oscurità quotidiana e dai rifiuti della moderna civiltà musicale sembra nascere il cosiddetto rap, strumento espressivo che ha avuto il merito di dare battesimo alle roots di una meta-musica, in grado di costringere ad ascoltare e riflettere.

Oggi, più che mai, il Rap, nonostante una deriva che tanto piace alle nuove generazioni, ma che di fatto non convince chi ha vissuto da vicino la voglia di combattere il potere, si presenta vivo e illuminato da una luce propria, che brilla anche lontano dalle sue terre natie, proprio come è accaduto al punk sul finire degli anni’70 ed al black metal post Burzum.

A raccontarci L’arte del Rap è il leggendario e poliedrico Ice-t, voce degli eterni Body Count e padre putativo del Gangasta Rap, bravo ad offrirsi nelle vesti di un Virgilio partecipe, tentando ( riuscendoci) di epurare la narrazione dalle troppe finzioni modaiole di cui il beatmaking di oggi sembra essere vittima consenziente. Il film, diretto dallo stesso Tracy “Ice-t” Marow”, assieme a Andy Baybutt, si pone come obiettivo primario quello di raccontare le motivazioni e le progressive alterazioni di una vera e propria arte, mediante un testo filmico, che porta con sé l’onere e l’onore di narrare attraverso preziose testimonianze dirette, atte a spiegare retroscena e genesi creative.

Ritroverete Chuck D (…ad illuminare le menti), Rakim, il “Mafious rapper” Raekwon, per poi arrivare a scoprire i retroscena vocali di B-Real e le strutture salvifiche di Eminem.

Il film, alimentato da un montaggio pulito e veloce, si alterna nel suo sviluppo a metaforici scratching attraverso il granulato delle immagini, in cui lo spettatore arriverà a comprendere come il Rap, nonostante le premesse sociali, non ha e non può avere colore, a patto di saper ascoltare quella che nel lungometraggio viene definita un’esperienza tribale, in grado di dare voce alle idee.

A compendio dell’opera, come da tradizione Real Cinema, troverete anche un piccolo ed essenziale libercolo che, partendo da un rimando filmico, offre al lettore una sintetica visione del mondo Hip Hop, attraverso un gustoso estratto di Mark Costello e David Foster Wallace (Il Rap spiegato ai bianchi). Dalle parole accorte degli autori il sentiero a barre, sotto lo sguardo attentivo di krush grooves e campionamenti, arriva a tradurre i pensieri rappati in maniera letteraria, attraverso aforismi e osservazioni legate ad una musica che, come dice Wycleaf Jean, appare a noi europei più difficile da capire, ma che oggi, più che mai, sembra non avere nessun tipo di frontiera.