Stevie Wonder – Innervisions (1973)

Dopo aver messo nella valigia, da portare sulla nostra immaginaria Isola deserta, dischi rock e folk di ogni epoca, non poteva mancare un genere che ha segnato la Storia della musica: il Soul. Fra i suoi interpreti più efficaci e credibili, la nostra attenzione è caduta alla fine su un artista immenso quale Stevie Wonder e sull’album che, verosimilmente, fu in grado di sintetizzare al massimo la sua forza espressiva, nonché l’estetica visionaria del suo autore: “Innervisions”.

Nel 1973 Mr. Meraviglia era nel pieno della sua golden age, tenendo conto che l’anno precedente aveva già pubblicato due capolavori come “Music on my mind” e “Talking book”. Ma fu con “Innervisions” che raggiunse la perfezione assoluta, con 9 indimenticabili brani, tutti scritti, prodotti e arrangiati dallo stesso artista americano, con una classe d’altri tempi.

Forse non tutti sanno che, al momento in cui si trattò di farlo ascoltare alla stampa, i giornalisti furono invitati a salire su un pullman bendati e ad andare in giro per la Grande Mela con la sola musica appena pubblicata come sottofondo. L’intenzione era di far immedesimare l’ascoltatore con l’autore e, chiaramente, lasciò ancor di più il segno. Il brano “Too high” che apre Innervisions è molto complesso, con una melodia tutt’altro che semplice, ma la sua bellezza è irresistibile con le tastiere che disegnano lo sfondo, l’armonica geniale di Wonder e i cori di Lani Grooves, Tasha Thomas e Jim Gilstrap a fornire al pezzo un mood meno serioso. “Visions” è immersa in un mare di dolcezza, quasi disarmante, ed è pazzesco immaginare come una persona non vedente possa scrivere versi come questi: “I’m not who make believes / I know that leaves are green / they only change the brown when autumn comes around”.

La scatenata “Living for the city”, continuando il filone sociale dei suoi pezzi, descrive la povertà di una famiglia del Mississippi nella quale un ragazzo sta per prendere una brutta piega, ma è con l’ipnotica di “Higher ground” che il tema diventa ancora più generale e viene ancor più approfondito. La musica di Wonder trova nell’amore universale la sua massima espressione ed è in questa direzione che ha influenzato molti artisti di alto calibro, sia contemporanei sia delle generazioni successive (“Praying for time” e “Patience” di George Michael, forse l’esempio più lampante, così come alcuni pezzi di Lionel Richie e Michael Jackson).

Non mancano in verità incantevoli canzoni d’amore dedicate alle donne, come la midtempo “Golden lady” (“looking in youre eyes / kind of heven eyes / closing both my eyes / waiting for surprise”) e la lenta e malinconica “All in love is fair”, dove le promesse di un sentimento che dovrebbe durare per la vita si scontrano con l’incapacità umana di essergli fedele per sempre.

“Don’t you worry ‘bout a thing” con tutti quei vocalizzi all’inizio del pezzo è la più giocosa del disco, mentre la finale “He’s misstra know it all” è uno degli episodi più belli per melodia e testo. La canzone apparentemente esalta un tipo furbo, imbroglione che fa anche il falsario e con un’amante che lo conosce come le sue tasche. Ma alla fine, di nuovo la storia è solo una scusa per sostenere che se in giro di questa gente ce ne fosse di meno, beh allora il mondo sarebbe un posto migliore (“If we had less of him / don’t you know we’d have a better land”).

Innervisions vinse il grammy per migliore disco dell’anno, come accadrà con i due successivi di Wonder (splendido soprattutto il doppio Songs in the key of life), ma per noi dei tre è questo il lavoro che meglio di tutti concentra, in pochi pezzi tutte le sue doti.

Uomo meraviglia…di nome e di fatto.