Tales of unexpected “Sciame di Vanesse”, recensione

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“Nel futuro che s’apre, le mattine sono ancorate come barche in rada”

Vanessa Fabricius è un comune lepidottero legato all’arte scrittoria di Jonathan Swift, nodo elegante e depressivo di questa curiosa e per certi versi cervellotica opera dei Tales of unexpected, bravi nel suggerire, sin dal titolo (Sciame di Vanesse) una lettura intertestuale di un infinito puzzle. Un mosaico attentamente studiato come una sorta di concept stilistico, in cui diversificati punti di vista forniscono l’inquadratura alla voluta frammentarietà espressiva del disco. Infatti, ogni suono, ogni traccia, ogni cromatismo sembrano voler vivere in maniera divergente, ma al contempo affine, raccontandosi con armonia in capitoli in grado di fornire un cortile temporale alla sceneggiatura, seguendo in maniera lineare lo svolgersi di una giornata.
Una modalità non dissimile da quella provata da Joyce e Boccaccio, pronta a giungere alla terminale chiusura inattesa, formalizzata come nel più classico dei loop filmici, mediante un nuovo e ridondante incipit.

La band milanese sembra inoltre volersi rifare al mondo di Roald Dahl e quindi indirettamente alla serie Il brivido dell’imprevisto, in cui si ritrovano metodiche strutture tipiche degli anni 70. Da qui si parte verso l’impronta alternativa del combo, pronto a mutuare ed evolvere verso sentori rock, grunge, pop lo fi ed influenze libere poste al servizio di odi ricercate, fortificate dietro ad un songwriting curato, poetico e a tratti visionario, in cui il surreale della cover art di Riccardo Ippolito definisce immediatamente il sentiero ricercato.

Proprio dietro l’ottima opera di packaging, il quartetto vuole sviluppare quell’istinto variabile nascosto nel loro retroterra formativo, per delineare un itinerario godibile nel suo essere, ma ideale nel suo insieme. Non ci sarebbe nulla di sbagliato nell’ accedere ai brani in maniera casuale, ma di certo perdereste (proprio come in un testo filmico) le sfumature di un’opera pensata per essere ascoltata in maniera lineare, con l’attenzione che un prodotto di questo tipo sembra meritare.

Aprite, dunque, gli occhi e accendete Il mattino del 15 ottobre e sentirete lo scorrere dell’anima funky che lo attraversa, per poi guadare Il meriggio ed il dolce arpeggio di Matrice, in cui la chitarra si appoggia a parole pensate, pronte a maturare verso una strutturazione sonora in cui il drum set entra leggero e delicato nel ricamare note. Un mondo che muta pelle con il delicato minimalismo di Intermezzo e le auree alternative, che pervadono i tracciati raccontati tra distorsioni e confini sottili.
Se poi con l’arrivo della sera ci si ritrova in una sofferta e claustrofobica atmosfera dai sentori blandamente post, con La signora dei ragni l’opera si delinea definitivamente in maniera alternativa ed emozionale, proprio come il disco nel suo insieme