Underfloor “Quattro”, recensione

4.jpg

Secondo l’esoterismo il numero quattro raffigura il più perfetto tra i numeri; rappresentazione della virtù generatrice da cui derivano tutte le combinazioni. Quattro altro non è che l’emblema del moto e dell’infinito, figurazione del corporeo e dell’incorporeo, del sensibile e dell’eterno. Un numero che, oltre ad essere segno rappresentativo della concretezza, rappresenta per i fiorentini Underfloor la quarta fatica musicale, in cui logica e ragione maturano nella convinzione vintage di sonorità cripto-analogiche prive di postproduzione. Nel tentativo (riuscito) di donare all’ascoltatore un perduto sapore retrò, la band volge il suo sguardo all’indietro, assestandosi su non-teconologiche impostazioni che avrebbe avuto maggior impatto se incise su vinile.

Il disco sembra voler regalare un abbraccio tra concettualità contemporanee e passatiste, prive però di ostinazioni ideologiche, ma al contrario pronte a espressioni artistiche curate, ma mai radicali.

La band, diventata quartetto dopo alcuni cambi di line up, riesce oggi a dipingere 10 tele pittoriche d’impatto, assestabili tra indie e progressive; anime musicali che si ergono da liriche minimali e poetiche, in grado di emanare sensazioni emozionali allegoriche e ponderate, proprio come dimostra l’attacco baustelliano di Come un gioco, vicina al Bosio style e ad alcune spezie verdeniane. La traccia, di certo tra le più facili all’ascolto, nonostante l’invasivo coretto finale, ci propone un andamento semplice e diretto nel suo ingentilito lo-fi, all’interno di un pathos narrativo alimentano dall’enclave sonora dominata dalla viola distorta di Giulia Nuti, collante primario del brano introduttivo. La voce del front-man si lancia poi verso i diluiti ed accorti lineamenti di Don’t mind, fino ad arrivare ai retaggi seventies di Indian song, in cui i riverberi portano in primo piano un sapore Rousoss. La mescolanza tra indie e una certa tipologia di progressive di stampo italico sembra essere un interessante pattern di fondo per molte partiture, le cui digressioni sonore vengono impreziosite dalla suadente vocalità vissuta spesso come strumento aggiuntivo.

L’approccio minimale di Linee di confine, arriva poi a disorientare nei suo approcci armonici, che maturano verso un piacevole riff anticipatorio dello scheletro musicale, pronto ad essere percepito solo dopo alcuni ascolti, assolutamente necessari per comprendere le molte sfumature degli Underfloor. I cromatismi di Solaris ne sono un esempio; le sue aggiunte noise si appoggiano a nereggianti attitudini floydiane, tra l’angoscia e inquietudine del violoncello, per poi cambiare direzione verso un proseguo minimale pronto al alternarsi ai suoi risolutivi geni e alle sue sensazioni reverse.

Insomma…un filmico racconto colto e raffinato atto a raccontare per immagini e colori cangianti un mondo poetizzato da liriche ermetiche.