Voina “Alcool, schifo e nostalgia”, recensione

voinaalcol.jpg

Hanno cambiato nome, e per un attimo non me ne sono accorto. Come i Persiana Jones che negli anni’90 persero le tapparelle maledette, così anche i Voina hanno deciso di epurare la seconda parte del proprio nome:“Hen”.

Come già avevo accennato nella mia precedente recensione di Noi non siamo infinito la reputo una giusta scelta, proprio come quella di ripercorrere, ispirati dal nome stesso, una pratica narrativa ricca di sarcasmo guerresco, arma letale per sferrare l’attacco ad una società schiava di se stessa.
Infatti con il nuovissimo Alcool, schifo e nostalgia la band ha deciso di perseguire le tematiche socio esistenziali del loro recente passato, portando a galla l’impulso aggressivo di pensare al nostro futuro, osservando quel passato nostalgico così estraneo alla cruda e vacua realtà di cui tutti noi ci rendiamo conto impotenti e basiti.

Partono da qui i lancianesi e partono bene, perché l’album, raccolto in un estetico digipack dalla discutibile artwork, modulano ottimamente una ragionata critica sociale, posta tra enclave calmieranti e cambi direttivi, atta a definire quella sorta di bipolarità sociale che la nostra società si ritrova a vivere in maniera vittimistica e persecutoria. La traccia iniziale (Welfare), impreziosita da back chorus dall’impatto nutrito, appare funzionale allo story telling, il cui dna convoglia animi ribelli, armonizzati su tracciati fondamentalmente easy listening.

Con Io non ho quel che non so che continua il fil rouge di un descrittivo sguardo su di una società deformata da voyerismo citazionismo e dalla necessità psicotica dell’apparire. Una narrazione in prima persona che dona l’anelata necessità di fuggire da questa costrizione, attraverso un suono molto vicino all’alt rock di stampo popular che ha caratterizzo la metà degli anni ’90. La scarna ed efficace sezione ritmica si unisce poi al groove perfettibile di Bere, pronta a riprendere la giusta via attraverso lo spettro emozionale di Ossa, in cui la visionarietà espressiva e metaforica dona nella sua aurea ballad una accento sulle originali linee espressive del frontman. Un’armonia comunque avvolgente che conquista sin da subito con un andamento sonoro tipicamente alternativo ma fondamentalmente pop.

Con Morire 100 volte invece emerge (finalmente) la bass line e gli spigoli di una struttura sonora in grado di definire la reiterata sonorità lessicale, pronta a convogliare l’ascoltatore verso una sorta di confort zone in cui il disagio viene ridefinito da sonorità decise e rapide, sino ad giungere sui confini de Gli anni’80 da cui, come cantava Agnelli, avremmo potuto non sopravvivere. Una sorta di prigione dorata da cui si vorrebbe o dovrebbe fuggire. Così tra difficoltà e cinico pessimismo dalle tinte ironiche la narrazione ci accompagna con un songwriting riuscito che trova terreno tra le note di Jazz punto di arrivo di un disco che mostra un’evidente passo in avanti.

TRACKLIST:

Welfare
Io Non Ho Quel Non So Che
Bere
Ossa
Morire 100 Volte
Gli Anni 80
Il Futuro Alle Spalle
Non è La Rai
Il Jazz
La Provincia