From progressive to revelation: la storia dei Genesis capitolo 7

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I trionfi commerciali targati Collins
A settembre dell’81 (dopo che, a febbraio, Phil Collins ha dato inizio alla sua ipermiliardaria carriera solistica con FACE VALUE, disco che contiene l’efficacissima “In the air tonight”, il cui suono, però, presenta forti debiti nei confronti del di poco precedente terzo album di Peter Gabriel, nel quale il batterista ha suonato) esce ABACAB, il nuovo album dei Genesis, ed è un vero shock!!!

Per confermare questa tesi è sufficiente ascoltare “No reply at all” dove, in un effetto a metà strada tra lo spaesamento spazio-temporale e un incubo a occhi …oops… pardon, a orecchie aperte, si sentono, a sirene spiegate, i fiati degli Earth, Wind & Fire!!!
Ora: va bene il rinnovamento, la ricerca, la sperimentazione – ho sempre sostenuto queste cose nella musica rock –, ma qui siamo veramente oltre!
Nulla da dire sui suoni funky (c’è un’intera e meritoria corrente della new wave che ha rinnovato realmente il rock basandosi sugli aspetti più creativi di quel suono), ma qui è evidente lo scopo commerciale dell’intera operazione.

La colpa, neanche a dirlo, è di Collins (ma i due soci fondatori Banks e Rutherford hanno la responsabilità – non marginale, anzi… – di aver acconsentito alla brusca svolta, sulla scia del successo ottenuto dal pop-funky di FACE VALUE).

Riguardo le altre canzoni, “Abacab” e “Dodo/Lurker” imboccano la strada del pop elettronico (in quel periodo il tecno-pop comincia a diffondersi a macchia d’olio, svilendo nel commerciale le interessanti sperimentazioni delle prime band electro al di qua e al di là dell’oceano) con classe e inventiva immutate (molto interessanti gli incroci tra chitarra elettrica e synt), mentre il resto dell’album paga un’ispirazione abbastanza scialba (piacevole solo “Man on the corner”, del batterista, memore delle pagine più riflessive e autentiche di FACE VALUE): illuminanti, in questo senso, sono le ridicole “Keep it dark” e “Who dunnit?” (letteralmente due accozzaglie di suoni elettronici senza arte né parte) il cui ascolto fa, nell’ordine, sbarrare gli occhi, accapponare la pelle, ghiacciare il sangue eccetera eccetera.

A seguire (giugno ‘82) c’è l’ovvio doppio album dal vivo, intitolato, con uno straordinario e perentorio sforzo dell’immaginazione, THREE SIDES LIVE (siamo ancora in piena era vinile).

Il quarto lato in studio contiene “Paperlate”, “You might recall”, “Me and Virgil” [tratte dalle sessions di ABACAB (in “Paperlate” ci sono di nuovo i fiati degli Earth, Wind & Fire)], “Evidence of autumn” e “Open door” (sottovalutate escursioni acustiche nel dolce romanticismo genesisiano, tratte dalle sessions di DUKE).
Nella versione inglese dell’album anche il quarto lato è dal vivo (e tutta dal vivo è anche la definitiva ristampa rimasterizzata della Virgin su cd), poiché, in Gran Bretagna, “Paperlate” e gli altri due brani delle sessions di ABACAB escono su singolo.

Che dire? Ci sono tutte le recenti hit per le folle osannanti, mentre comincia a comparire su disco quella fastidiosissima tentazione (che diventerà ben presto un’abitudine) dei medley dei brani del passato.
In concerto, e solo in concerto, i tre soci sono accompagnati dal già citato Thompson alla batteria e da Daryl Stuermer alla chitarra.

La Charisma, storica etichetta dei nostri, viene fagocitata dalla potente Virgin e così il nuovo album del gruppo (settembre 1983) si intitola, quasi a voler indicare un nuovo inizio, GENESIS.
Invece non inizia un bel niente: i brani tendono sempre più a collocarsi nel filone del mainstream pop, il classico e facilone suono del rock americano da FM, poiché quello è il mercato per eccellenza verso cui sono ormai proiettati i tre soci.

I brani interessanti sono tutti sul lato A: “Mama” (originale nel suo dipanare sequenze elettroniche di drumming e atmosfere quasi horror), “That’s all” (easy-listening ma con un bel groove pianistico) e la suite “Home by the sea/Second home by the sea”, decisamente epica e trascinante.
Il lato B, invece, infila una dietro l’altra alcune delle canzoni più brutte e insignificanti mai scritte dai nostri.
Su tutto, intanto, incombe una fastidiosa produzione troppo levigata, troppo pop.

Ma il martirio delle nostre orecchie è appena cominciato perché, in linea con il moderno schema Genesis (ad un nuovo – sempre più facile e ballabile – album di Phil Collins segue un nuovo album del gruppo e viceversa), a giugno dell’86 irrompe nei negozi INVISIBLE TOUCH.

Il disco, vendutissimo, è, ormai, un perfetto e oliato prodotto fatto apposta per i facili e disarmanti gusti del pubblico americano, un rock talmente annacquato di pop da far impallidire e vergognare anche i più benevoli e concilianti seguaci del trio (per esempio me medesimo…).
Della title-track, con il suo ritornello spacca-timpani, è imbarazzante anche solo parlarne (ed è ancora più imbarazzante vedere come si divertono i tre a suonarla…), “Tonight, tonight, tonight” e “Domino” sono dei fastidiosi polpettoni che riciclano con scarsissima fantasia le classiche atmosfere epiche e tenebrose del bel tempo andato, le altre canzoni indugiano allegramente tra pop con schitarrate finto-hard e innocui, quanto soporifere, ballate.
L’unico brano potenzialmente interessante è lo strumentale conclusivo “The brazilian”, ma, dopo le prime promettenti battute, il tutto viene sommerso inesorabilmente da una tremenda melassa sonora.

Il successivo silenzio discografico dura oltre cinque anni, ma il lasso di tempo non li fa meditare: a novembre del 1991 appare il nuovo album dei Genesis (dopo lo scontato nuovo disco di Collins, secondo collaudato schema), WE CAN’T DANCE.

L’album (doppio su vinile, singolo su cd), ad essere sinceri, è formalmente impeccabile ed è suonato con classe e mestiere (ma questa non è mai stata una novità).
Però, ad essere sinceri fino in fondo, mi fa un po’ pena: ma non tanto (o non solo) per le canzoni contenute, quanto per quei tre, i quali, perso completamente ogni straccio della sia pur minima ispirazione, non hanno neanche la dignità e il coraggio di chiudere baracca e burattini e, anzi, di fronte a cotanta avvilente realtà, non sanno far altro che presentare l’ennesima richiesta di saldo attivo al conto in banca e l’ormai inguaribile fame di fama.

In questo contesto, gli apprezzamenti che Mario Giammetti, il miglior conoscitore e critico italiano dell’epopea dei Genesis, fa a questo disco nel suo ottimo libro sul gruppo, mi sembrano tanto una inutile difesa d’ufficio.
L’unica canzone che presenta una parvenza di originalità è “I can’t dance”, “No son of mine” è piacevole da ascoltare, ma il resto del disco, in maniera imperterrita, inanella le stesse, identiche soluzioni (?!?) sonore del lavoro precedente: pop-rock ipermelodici tirati a chitarre spiegate e ballate noiosissime e scontatissime – perfino le abituali suite, “Driving the last spike” e la conclusiva “Fading lights” (dal titolo paradigmatico!), sono prive di un qualsiasi scatto emotivo e si trascinano, stancamente e asetticamente, dall’inizio alla fine.

Ma, ovviamente, il successo del disco e del tour è mastodontico, al punto da ritenere conveniente sfruttare al massimo la situazione pubblicando un disco… no, mi sbaglio, due, signori, due dischi live (così accontentiamo grandi e piccini) tra novembre 1992 e gennaio 1993: THE WAY WE WALK VOLUME ONE: THE SHORTS e THE WAY WE WALK VOLUME TWO: THE LONGS.
Il primo raccoglie tutti i più recenti successi su singolo del gruppo, il secondo infila i brani più lunghi ed elaborati, compreso l’ennesimo, maledetto medley che riduce a macchietta composizioni cariche di arte e di storia.

Nel 1995, in un benedetto attimo di lucidità, Phil Collins dichiara la sua ferma volontà ad abbandonare i Genesis per dedicarsi a tempo pieno alla sua carriera solista: ricordo che all’epoca mi augurai fervidamente che il gesto servisse a mettere una gigantesca e definitiva pietra sopra tutto quanto, ma (e i Pink Floyd del dopo Waters insegnano…), siccome al peggio non c’è mai fine, ecco che, a settembre del 1997, inaspettatamente, compare un nuovo album a firma Genesis, …CALLING ALL STATIONS….

Ma se non c’è più Collins, ci si chiede, chi diavolo canterà? Banks? Rutherford? No, non può essere, non ne hanno le capacità.
E infatti non può essere, è anche peggio: i due accoliti, in preda ad un trip da onnipotenza (della serie: fa niente che i due singer precedenti sono stati un tale di nome Peter Gabriel e un certo Phil Collins – due che, nel bene e nel male, hanno comunque fatto la storia del rock –, chiunque può cantare le nostre composizioni, tanto noi due e solo noi due siamo i Genesis!), convocano alle parti vocali tal Ray Wilson (che anonimo era e anonimo rimarrà, dopo aver contribuito a imbrattare in maniera indegna il finale di una storia gloriosissima).

Sul disco è inutile spendere più di qualche parola: il suono è il solito, l’ispirazione è la solita, solo “The dividing line” è ascoltabile, il resto sono tenebre.
E il flop sia dell’album che del tour successivo stanno lì a dimostrare come la band avesse senso (se mai ne avesse ancora uno…) solo con la presenza di Phil Collins (non a caso entrambe le carriere hanno imboccato il viale del tramonto delle vendite dopo la separazione).

Recentemente Tony Banks e Mike Rutherford hanno escluso nuove produzioni a nome del gruppo.
Speriamo non ci ripensino e soprattutto Dio ci scampi da una sempre possibile ‘reunion’…