J.Harris “The dark side of the moon”, recensione

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The Dark side of the moon è ancora oggi considerato “una pietra miliare, capace di stazionare 724 settimane nella top 200 di Billbard, il periodo più lungo per un album. Malgrado tutti i tentativi di spiegare il mistero del suo successo, l’eterna popolarità dei questo disco resta un enigma”.

L’opera di John Harris, proprio nel tentativo di raccontare il successo del mitologico album, fedele al suo sottotitolo, si addentra nella genesi storica del lato oscuro della luna, attraverso un arco temporale esteso oltre i confini demiurgici.

Il libro, come afferma il suo autore, parte dalle interviste dirette ai protagonisti di una storia complessa e a tratti inattesa, per poi arrivare alla lucida analisi di come le cicatrici mentali di Waters abbiano influito sulla sfera creativa. Il substrato sociale, l’imprinting e il suo vissuto, unito alle ombre di Syd Barettt e ad un manifesto egocentrismo, sembrano essere i punti focali di un capolavoro senza tempo.

Dopo un breve preambolo storiografico, Harris ci porta gradualmente verso il battito cardiaco del magico prisma, attraverso le zone buie di quella follia attraversata dalla psichedelica esistenza musicale, dalle sale da ballo e dall’arroganza di Waters, di cui sono impregnale le circa 200 pagine del libro, pronto a portarci nella culla filmica di Antonioni, tra le pieghe lisergiche di Piper at the gates of down e la straordinaria cover art di Atom Heart mother. L’insieme dei principi allegorici narrati in incipit, anticipano il lettore e il suo accesso agli Abbey Road Studio, nei quali scoprirà come il lato oscuro della luna non nacque come capolavoro, ma al contrario lo divenne partendo da infinite sbavature e rivisitazioni di idee confuse. Proprio grazie alle sessioni creative, spesso interrotte dai tour e dall’Arsenal, l’album, come si evince dalle parole del giornalista di Rolling Stone, ha avuto una concepimento complesso ed estremo, passando dalla stereofonia alla quadrifonia e ritorno, al servizio di un concept basato sull’insania e sulle ombre concretizzate dall’attività scrittoria di Roger Waters

Un opera che si incanala piacevolmente in curiosi dettagli impagabili, atti a raccontare l’origine dell’ottava opera pinkfloydiana, pronta ancora una volta a ripiegarsi sul proprio passato scrutando l’orizzonte tecnologico. Un libro capace di raccontare una tra le più influenti opere rock, attraverso un percorso fluido di parole attente.