The piper on the moon: la storia dei Pink Floyd capitolo 2

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I Pink Floyd nascono nel 1965 su una base decisamente blues, tant’è che Syd Barrett, il chitarrista, dà il nome al gruppo ispirandosi a Pink Anderson e a Floyd Council, due oscuri bluesmen americani.
All’inizio il repertorio è integralmente fondato su standard del blues e del rock’n’roll (pezzi di Bo Diddley, di Chuck Berry, cover dei Rolling Stones), ma pian piano, il gruppo (completato da Roger Waters al basso, Nick Mason alla batteria e Rick Wright alle tastiere) comincia a inserire nelle sue performance alcuni brani strumentali, lunghi e dalle sonorità atipiche, composti da Barrett.

Tra il ’66 e il ’67 si diffonde in Inghilterra il movimento psichedelico e i Pink Floyd, che nel frattempo stanno anche organizzando i loro live-show in termini sempre più multimediali (uso non convenzionale di luci e di diapositive ad accompagnare i brani), sono tra gli alfieri di questa rivoluzione socio-musicale.

Agli inizi del ’67 il gruppo esordisce su vinile con un 45 giri (“Arnold Layne”) che è una novità in tutti i sensi: musicalmente le tastiere e la chitarra disegnano ghirigori che hanno un sapore tutto originale e per niente identificabile nei classici canoni del beat allora imperante; liricamente, con la storia di un tizio che ruba biancheria femminile, siamo agli antipodi della classica canzone d’amore (addirittura il retro, “Candy and a currant bun”, originariamente era intitolato “Let’s roll another one” – ‘arrotoliamone un altro’ –, ovvio e censuratissimo riferimento agli spinelli).

Il bis, tre mesi dopo, è ancora più riuscito: esce la splendida “See Emily play”, una delle più belle canzoni scritte da Syd Barrett, autentico manifesto della psichedelia inglese con l’organo che si invola in magici territori esotici.

A coronamento di tutto ciò, ad agosto del ’67, esce THE PIPER AT THE GATES OF DAWN, straordinario primo album della formazione e sicuramente pietra miliare dell’intero movimento musicale psichedelico.
Sotto un certo punto di vista (che è quello dell’assoluta atipicità e originalità della proposta musicale) il disco rappresenta un unicum sia nel campo della psichedelia inglese sia, addirittura, nell’ambito della discografia dei Pink Floyd.
L’album (che è interamente composto da Syd Barrett, a parte un intervento dell’ancora acerbo Waters) mette in musica e in parole la visione del mondo del suo autore, visione del mondo che è costantemente distorta, alterata, camuffata, trasformata ma anche purificata e resa materia prima intoccata e intoccabile dalle surreali fughe lisergiche di Barrett, acuto (ahinoi) consumatore di acidi.

Il disco presenta due splendide incursioni nel rock cosmico, “Astronomy dominé” e “Interstellar overdrive”, dove gli effetti elettronici e l’evidente spazialità della musica, lungi dall’essere solo una decorazione esteriore, trasmettono realmente l’idea di un viaggio interstellare immaginato ma anche vissuto realmente sotto gli effetti di una qualche sostanza stupefacente: qui i Floyd, e segnatamente Barrett, superano in maniera radicale quanto imprevedibile il classico formato canzone, pionieri di un territorio vergine che, negli anni successivi, loro stessi e altri (psichedelici o progressivi o cosmici tedeschi) esploreranno fino alla saturazione.

Il resto dei brani (che urlano la loro assoluta originalità e freschezza attraverso sonorità che, se anche a volte ingenue, rifulgono di una splendida luce propria – da “Lucifer Sam” a “Matilda mother”, da “The scarecrow” a “Bike”) sono affascinanti quanto misteriose favole costruite secondo il tipico linguaggio apparentemente infantile e inconcludente di Barrett (non a caso il titolo dell’album proviene da “Il vento nei salici”, un romanzo per bambini scritto da Kenneth Graham).

Linguaggio semplice e inconcludente solo in apparenza, ma in realtà pieno di significanti/significati che illustrano la folle lucidità di un uomo che, profondamente provato, nella sua già fragile psiche, da un’infanzia difficile (la precoce perdita del padre e la presenza di una madre, pare, oltremodo possessiva) combina, nella sua mente pervasa dagli acidi, in maniera magica e fatale, i riferimenti fantasiosi e fiabeschi della sua infanzia con la sua realtà stravolta di uomo e di artista, tentando, invano, di padroneggiarne sia i contenuti che le tragiche conseguenze (in questo senso i due album solisti di Syd Barrett pubblicati nel ’70 sono l’esempio più eclatante di questa ormai inarrestabile e non più componibile frammentazione del suo universo mentale – splendide e incompiute prove del suo genio ormai laterale a ogni percorso canonico della musica come della vita in generale).

Nei mesi successivi all’uscita dell’album la dissociazione mentale di Barrett esplode in tutta la sua evidenza e gravità, tant’è che il gruppo, non essendo più in grado di proporsi in maniera convincente né dal vivo né negli spettacoli televisivi cui è invitato, decide di dimissionare il vecchio leader e di sostituirlo (ironia della sorte) con un suo amico di infanzia, David Gilmour (la cui splendida chitarra, intrisa di blues e di reminiscenze hendrixiane, assurgerà a protagonista delle sonorità Floyd negli anni a venire).

Ma il cambio di rotta non è indolore: Waters, Wright e Mason più il nuovo arrivato sono disorientati ed è loro ancora poco chiara la nuova strada da intraprendere per quanto, invece, è evidentissima quella vecchia, splendida e foriera di chissà quali altre meraviglie, che però sono stati costretti ad abbandonare.
I passi seguenti denotano, pertanto, incertezze a stento mascherate da un talento latente, ma, comunque, presente.

I tre singoli successivi (il primo dei quali ancora scritto da Barrett) sono inconcludenti (invariabilmente il lato B è, di molto, migliore del lato A, mentre, addirittura, l’ultimo 45, “Point me at the sky”, sembra un plagio di tanti frammenti musicali rubati al SGT. PEPPER beatlesiano).

A lenire un po’ questa situazione di estrema difficoltà espressiva, arriva, a metà ’68, il secondo album, A SAUCERFUL OF SECRETS, dove le redini compositive vengono saldamente prese da Roger Waters e, parzialmente, da Rick Wright.
Il primo si mette in bella evidenza proponendo uno splendido, misterioso ed esotico brano quale “Set the controls for the heart of the sun”, vera song spartiacque, con un occhio rivolto ancora alle magicosmiche divagazioni strumentali dei Floyd barrettiani e l’altro puntato a scrutare l’orizzonte verso i pindarici voli dei Floyd che verranno; il secondo si propone con “Remember a day”, bella canzone beat-psichedelica.

Ma la traccia più importante di quest’album di transizione è proprio quella omonima, una lunga suite strumentale divisa in tre movimenti che, accanto alle intuizioni sonore da trip psichedelico tipiche di quel momento musicale, propone velati accenni a quella psichedelia progressiva, a quelle ariose e placide aperture strumentali, a quella pienezza di suono che faranno la fortuna artistico-commerciale dei Pink Floyd prossimi venturi.

Non possiamo concludere la disamina di quest’album senza fare un accenno all’unico brano di Syd Barrett presente in scaletta, “Jugband blues”: la canzone, registrata subito dopo l’uscita di PIPER e con il suo autore ancora alla guida del gruppo, rivela la sua importanza soprattutto nella raggelante, lucida follia dei primi due versi, limpida e inequivocabile autodiagnosi di uno stato di schizofrenia che si sarebbe palesato di lì a poco:
“E’ molto gentile da parte vostra pensare che io sia qui
e vi sono molto obbligato per aver chiarito che io non sono qui”.

Nei primi mesi del ’69 i Pink Floyd, in concerto, cominciano a presentare due suite sperimentali, “The man” e “The journey”, ognuna delle quali è composta da brani sia editi che inediti collegati tra loro: è sempre più evidente in loro la tendenza a superare gli stretti margini del formato canzone in vista della proposizione di un afflato sonoro più corale e più universale che, come abbiamo già detto, caratterizzerà le opere della loro maturità.

Intanto si impegnano nella scrittura della colonna sonora di un film, MORE, dove, tra strumentali composti per l’occasione e adattamenti di canzoni già presentate dal vivo, propongono un album che, sia pure minore, presenta alcuni motivi di fascino e di interesse.
Da un lato comincia a venire a galla la dimensione acustica della poetica musicale di Waters (riscontrabile in alcuni gioiellini come “Cirrus minor”, “Green is the colour” e “Cymbaline”), da un altro il gruppo comincia ad appropriarsi di una scrittura rock quasi canonica (l’hard di “The Nile Song”); ancora, con “Main theme”, i Floyd danno prova di una sempre maggiore padronanza nella costruzione di tappeti sonori ipnotici e affascinanti, mentre con “More blues” c’è una delle ultime rievocazioni (ce ne saranno ancora due con “Biding my time” – sull’antologia RELICS – e con “Seamus” – su MEDDLE -) del loro originario punto di partenza blues.

Sempre nel ’69 il gruppo si imbarca in un’esperienza discografica stimolante e affascinante quanto insidiosa e pericolosa: un disco doppio con, da una parte, la riproposizione su vinile di una loro performance live e, dall’altra, l’incisione di brani originali composti e suonati in maniera autonoma dai singoli componenti del gruppo.

L’album, che uscirà con il titolo di UMMAGUMMA, diventa a tutti gli effetti la seconda pietra miliare della discografia dei Pink Floyd, pur se con alcuni distinguo.
La parte live è straordinaria, anche se quei 40 minuti, in cui è condensato un magico crogiuolo di esperienze sonore assolutamente uniche, non possono dare l’effettivo sapore dell’esperienza visiva del gruppo in azione (cosa, invece, messa splendidamente in risalto da PINK FLOYD AT POMPEI, film straordinariamente evocativo, girato nel 1971 tra le rovine della città morta campana).
I Floyd ripropongono “Astronomy dominé”, “Careful with that axe, Eugene”, “Set the controls for the heart of the sun” e “A saucerful of secrets”, ma le versioni live, rispetto ai loro corrispettivi in studio, appaiono stravolte, dilatate, anche se guidate con mano assolutamente sicura dall’affiatamento strumentale dei quattro: ciò che ne viene fuori è un tumulto espressivo che di volta in volta è temerarietà, rilassamento, paura, serenità, il tutto apparentemente caotico ma in realtà saldamente governato dalla coerenza compositiva di fondo.

La parte in studio presenta contributi individuali dei quattro con alterna fortuna: “Sysyphus”, di Wright, è un esperimento sonoro che costeggia i territori classici e che viaggia in costante bilico tra il fascino e la pretenziosità che annoia; “Grantchester Meadows”, di Waters, illustra ancora, con bei risultati, la sua propensione per il bozzetto naturalistico – caratteristica ribadita dal curioso e psichedelico esperimento sonoro di “Several species…” –; “The narrow way”, di Gilmour, evidenzia le limitate capacità compositive del chitarrista (che miglioreranno, ma non di molto, nel corso degli anni) in contrasto con le sue ottime capacità tecniche; infine “The Grand Vizier’s Garden Party”, di Mason, è una curiosa quanto interessante suite percussiva (uno dei rari momenti, nella storia Floyd, in cui il non eccezionale talento strumentale e compositivo del batterista viene fuori).

Se ci dovessimo limitare a valutare il percorso discografico dei Pink Floyd sulla base della validità o, più semplicemente, della pura esistenza di coscienti sperimentazioni sonore nell’ambito dei loro dischi, potremmo anche fermarci qui.
Ma non è giusto limitarsi a questo: i Pink Floyd del dopo UMMAGUMMA hanno coscientemente esplorato altri ambiti, forse meno elitari e avanguardistici, ma altrettanto suggestivi e creativi.