U2 – Achtung Baby! (1991)

Gli U2 rappresentano innegabilmente una delle band più rilevanti della storia della musica degli ultimi decenni. All’inizio degli anni ’90 il gruppo irlandese si trovò – dopo aver toccato l’apice del successo artistico e commerciale, con tre dischi importanti di cui uno stratosferico (The Joshua tree, già recensito in questa rubrica dei Dischi da Isola Deserta) – di fronte al più classico dei bivi: riuscire a evolvere o “morire”. Ma il vocalist Bono, il chitarrista The Edge e la coppia della sezione ritmica formata da Mullen/Clayton di sparire dalle scene proprio non ne volevano sapere. E così, gli vennero fatalmente incontro una città piena di evocazioni storiche (anche musicali) e tre persone, a loro modo geniali.

Quanto alla città si trattava di Berlino, la stessa nella quale un certo David Bowie aveva saputo reinventarsi negli anni ’70, con la sua famosa trilogia, incisa proprio nei medesimi studi di registrazione scelti dagli U2 (Hansa studios). Nel loro caso, tuttavia, il muro era finalmente caduto, con tutto ciò che ne era conseguito a livello di speranze per un futuro migliore, per l’Europa e per il mondo. Riguardo alle tre persone, stiamo parlando dell’estroso tecnico del suono Flood e dei due produttori storici: Daniel Lanois e Brian Eno (quest’ultimo – non a caso – proprio a fianco del Duca Bianco ai succitati tempi di Heroes).

Questa miscela esplosiva di luoghi, persone e talento creativo diede i suoi frutti portando alla pubblicazione di un disco dal titolo oggettivamente brutto: Achtung baby!, ma fortunatamente pieno di splendide canzoni che avrebbero saputo lasciare il segno. Da una parte di sono quelle più radiofoniche come Even better than the real thing o la ritmata Mysterious way, mentre dall’altra si fanno largo quelle più sperimentali, come l’iniziale e trascinante Zoo station (dove la voce di Bono è filtrata “artificialmente” quando canta le strofe), o la splendida cavalcata elettrica “Who’s gonna ride the wild horses”.

Lo spazio per il rock ancora più deciso è occupato dal riff (quasi) heavy metal del singolo The fly e dall’indimenticabile ferraglia di “Until the end of the world”, ma è forse con la ballata da brividi One che l’album tocca le sue vette più sublimi. Stiamo parlando, a mio avviso, del brano più significativo di un intero decennio, anche se non tutti hanno capito che, in realtà, non è si trattava di una canzone d’amore, ma di rottura. Dopo tutta quella magnificenza senza punti deboli (altri brani come Ultra violet, Acrobat o la lenta Love is blindness sono solo apparentemente minori, ma risultano perfette) i ragazzi di Dublino non sapranno più ripetersi, pur continuando a produrre album più che dignitosi (escluderei gli ultimi tre, se mi è concesso), come ad esempio “All that you can’t leave behind”. Per il futuro, invece, beh che dire Anche se vale sempre il motto “mai dire mai”, le speranze direi che sono ai minimi termini.