Yesterday and forever: la storia dei Beatles parte seconda

Beatles

Capitolo 2: la maturità artistica

Nel 1965 avvengono i primi cambiamenti sostanziali nell’immagine mediatica e nella musica dei ‘fab four’.

I primi contatti con la cultura rock americana (in special modo con Bob Dylan e con i Byrds) producono due effetti strettamente collegati: l’iniziazione all’uso delle droghe e, diretta conseguenza, lo spalancarsi di nuove percezioni sensoriali e musicali attraverso le suggestioni dell’ ‘acid trip’ e della psichedelia.
Questo ha contribuito a far sì che, con i Beatles, sia avvenuto esattamente l’opposto di ciò che, di regola, accade nel mondo del pop-rock.

Solitamente ci sono due tipologie di artisti: i primi partono con brani facili che incontrano subito il successo, brani che poi li costringeranno a ripetere all’infinito quella formula musicale; i secondi partono con sonorità ostiche o, comunque, difficilmente fruibili dal grande pubblico, sonorità che vengono man mano addolcite per venire incontro ai gusti della massa e ai desideri di vendita.
Bene: per i Beatles è stato esattamente il contrario.

Nascono come gruppo pop per eccellenza, subissato da un successo planetario senza precedenti, dovuto a canzoncine gradevoli ma, tutto sommato, innocue.
Una volta raggiunto il ‘top del pop’, approfittano di questa ragguardevole posizione non per dormire sugli allori, ma per cominciare a produrre veramente musica rock di alto livello, sperimentale, innovativa, all’avanguardia, col vantaggio, oltretutto, di poterla diffondere utilizzando l’enorme spazio mediatico che nel frattempo si sono guadagnati.

Primo passo di questa rivoluzione artistica è l’album RUBBER SOUL: rispetto ai precedenti è un disco più coeso (tutto a firma Lennon/McCartney con un paio di contributi di Harrison) dove, lentamente, il beat lascia il posto ad una maggiore maturità rock innervata, ancora superficialmente, da sonorità psichedeliche.
Il song-writing è di alto livello (anche i testi cominciano a distaccarsi dalle svenevolezze amorose adolescenziali per concentrarsi su tematiche che vanno dalla realtà di tutti i giorni all’amore universale): si passa da “Norwegian wood” (dove appaiono per la prima volta le sonorità del sitar) a “Nowhere man”, da “Michelle” a “Girl”, da “I’m looking through you” a “In my life” fino a “Run for your life”, senza dimenticare “We can work it out” e “Day tripper”, i brani del singolo inciso durante le stesse sessions.

La rivoluzione adombrata nell’album dall’ ‘anima di gomma’ giunge a splendida maturazione nel successivo, REVOLVER, probabilmente l’espressione più alta e compiuta del genio dei Beatles.

REVOLVER coincide con un radicale cambiamento del ‘modus componendi’ e del ‘modus vivendi’ del gruppo di Liverpool: proprio nell’estate di quel fatidico ’66 chiudono con le esperienze concertistiche per meglio concentrarsi sulle fatiche della sala di registrazione.

I Beatles si trasformano in una band da studio e lo studio si trasforma in un laboratorio sperimentale dove è possibile provare, ricercare, trovare di tutto, musicalmente parlando: sarà questa la filosofia sottesa a REVOLVER e al suo più famoso successore SGT. PEPPER.

Nell’album del ’66 la maggior parte delle sonorità sono orientate in senso psichedelico, con abbondante uso di strumentazioni esotiche (il sitar, la tabla) e di tecniche di registrazione inusuali (nastri rallentati o fatti girare al contrario): oggi sono ‘trucchi’ che fanno sorridere, ma all’epoca erano veramente il segno di un progetto artistico antesignano e di una creatività libera e sostanziale.

Il disco è splendido proprio perchè sopporta con straordinaria disinvoltura tutte queste innovazioni, mentre i quattro raggiungono un affiatamento strumentale di tutto rispetto, fatto, questo, che risalta in ogni traccia: dall’iniziale “Taxman” alla splendida “Eleanor Rigby”, da “I’m only sleeping” all’indiana (e harrisoniana) “Love you to”, dalla filastrocca di “Yellow submarine” a “And your bird can sing”, da “For no one” a “Doctor Robert”, da “Got to get you into my life” fino alla maestosa apoteosi psichedelica di “Tomorrow never knows” (di Lennon), senza tralasciare “Paperback writer” e “Rain”, i brani usciti su singolo ma provenienti dalle medesime sessions.

La strada intrapresa dai Beatles traccia la direzione per tantissima musica di quel periodo: il ’67, sia in USA che in Inghilterra, è l’anno dell’esplosione psichedelica e i ‘fab four’ lo celebrano a modo loro, producendo SGT. PEPPER, che non è solo il loro album più famoso e conosciuto (ed uno dei più famosi e conosciuti dell’intera storia del rock), ma è anche assurto a simbolo della mitologia psichedelica.
Prima, però, di addentrarci nella descrizione di questo storico disco, bisogna fare più che un accenno ai brani del singolo che precede di qualche mese l’album, ma che è frutto delle stesse sessions: la bella e delicata “Penny Lane”, frutto della penna di Paul McCartney, e, soprattutto, la splendida e psichedelica “Strawberry Fields forever”, geniale parto di John Lennon, vera canzone simbolo della poetica del suo autore e di un intero movimento culturale.

SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS CLUB BAND è un disco costruito interamente in studio, con un lunghissimo lavoro di taratura e di mixaggio di ogni singolo suono che all’epoca era totalmente inconcepibile: per la prima volta le più avanzate tecniche di registrazione (unite ad uno spontaneismo creativo frutto delle tre menti compositive dei Beatles colte al massimo del loro fulgore) vengono piegate ad uno straordinario progetto artistico.

E’, ancora, innovativa l’idea di legare tutti i singoli brani in un ‘continuum’, a dare l’idea di un vero album, concepito in maniera univoca e unitaria e non (come era stato fino ad allora sia in USA che in Inghilterra) come raccolta di singole canzoni a sé stanti o come antologia di hit.
Mai come in questo caso assurge a protagonista il ‘ quinto beatle’ per antonomasia, il produttore George Martin, fantastico cucitore e arrangiatore delle fantasie musicali dei quattro.

Musicalmente il disco è un coerente percorso che si dipana dal rock della canzone eponima alla movimentata “With a little help from my friends”, dall’evidente psichedelia di “Lucy in the sky with diamonds” (con riferimenti, pare, all’ l.s.d.) alla serrata “Getting better”, dall’onirica “Fixing a hole” alla dolcissima “She’s leaving home”, passando per il curioso valzer di “Being for the benefit of mr. Kite!” e la splendida sperimentazione psichedelico-indiana di “Within you without you”. Seguono “When I’m sixty-four”, “Lovely Rita” e “Good morning good morning”, brani minori, ma ben ravvivati da lucide intuizioni strumentali e da innovative soluzioni di arrangiamento.

L’album si conclude con una ripresa di “Sgt. Pepper” e con quello che è, sicuramente, il capolavoro del disco, “A day in the life”, meravigliosa summa lennoniana di tutti i percorsi sonori fino ad allora tracciati dai Beatles.
Qualche parola, infine, sulla famosissima cover dell’album, una delle copertine più famose e imitate della storia del rock: sono presenti le immagini dei più disparati personaggi del mondo dello spettacolo e non, in una sorta di abbraccio/riepilogo ecumenico della fama planetaria del complesso.

Un mese dopo gli instancabili quattro sono di nuovo in pista con un nuovo singolo, contenente la famosissima “All you need is love”.
A seguire avvengono due fatti che, in prospettiva, avranno un ruolo determinante nella fine dei Beatles: la morte del loro manager (e mentore) Brian Epstein e la nascita di una società incaricata di sovrintendere all’enorme patrimonio economico beatlesiano, la ‘Apple’.

La fine di Epstein, una sorta di fiduciario e collante dell’intero gruppo, agevolerà le forze centrifughe in seno alla band; la ‘Apple’, gestita in maniera a dir poco allegra, si rivelerà un disastro finanziario che finirà per spezzare definitivamente i già precari equilibri interni dei Beatles.

I quattro, nati come gruppo strettamente unito, oltremodo cementato dall’intesa artistico-amicale tra Lennon e McCartney, si stanno avviando, ormai, ad essere delle entità a sé stanti, con progetti, a volte anche profondamente, divergenti.
Ma il ’67 si conclude con un’ulteriore esperienza cinematografico-discografica: il deludente filmetto surreale “Magical mystery tour” corredato dall’omonima colonna sonora dove spiccano il brano eponimo (sulla scia delle sperimentazioni del SGT. PEPPER), la delicata “Fool on the hill” e la psichedelicamente dissonante “I am the walrus”.